Regia di Lachezar Avramov vedi scheda film
Una giovane donna giapponese e la sua Polaroid, di fronte ad una realtà ambigua e violenta: la fotografia è davvero la chiave d'accesso al mondo, anche nei suoi risvolti più sgraditi e inquietanti.
Una foto. Un clic. È un gioco da ragazzi catturare la realtà. È tanto facile soddisfare, all’istante, la propria curiosità di vedere, conoscere, cercare di capire ciò che appare diverso e strano. Yuki sogna, attraverso il suo obiettivo. Ha il tocco magico di chi trasforma la fugacità di un’emozione in un ritratto da serbare nel cuore. Basta davvero un attimo, a cambiare tutto, a lasciare un segno indelebile. Oppure a causare un danno irreparabile. La superficialità di un contatto, anche casuale, può risultare fatale. La verità è più severa e indomabile di quello che crediamo noi, che talvolta la guardiamo con gli occhi incantati di un artista infantile. E Yuki è una donna matura che ha ancora l’aspetto fresco e levigato di una fanciulla, mentre desidera, con tutta l’anima, di poter finalmente diventare madre. La sua dimensione ideale è la novità da inseguire e fare propria, per partecipare all’incessante processo creatore del mondo, il cui motore è una fantasia libera e gioiosa, come quella che per lei, sicuramente, caratterizza la vita dei gitani. Un giorno immagina di poter aggiungere la loro musica, le loro danze, la loro aria festosa alla composizione in cui costantemente cerca di convertire l’esistenza: un tassello alla volta, da aggiungere pazientemente al mosaico nel quale, alla fine, tutto deve apparire perfetto. La sua stessa figura, un fisico sottile dai tratti finissimi e dal colore etereo, sembra la cifra del suo stile, votato all’essenzialità intesa come parsimonia di gesti accompagnata dall’intensità del sentire. Semplicità e profondità: il binomio che presenta lo scatto di una Polaroid come una finestra al di là della quale si estende un intero universo, destinato a rimare in parte indecifrabile, da ammirare da lontano. La vicinanza, tuttavia, scompagina il rassicurante impianto estetico di questa candida illusione. Un incontro può equivalere a uno scontro, con conseguenze devastanti, che non si potranno cancellare con il gesto banale di cestinare un’inquadratura mal riuscita. Se avvincente è il percorso di scoperta dell’ignoto, altrettanto avvolgente ed inquietante è il movimento con cui l’inatteso penetra nell’esistenza di un’innocente, trascinandola dentro una sgradita, dolorosissima evidenza. Questo film pone al centro della storia l’estraneità, l’effetto drammaticamente spiazzante prodotto dalla presenza di un intruso in un contesto ben consolidato: una donna giapponese in visita in Bulgaria, la patria del marito. Lì Yuki si ritrova immersa in un ambiente culturale che l’affascina, ma che in parte la respinge, e di cui non capisce il tessuto culturale. Decide comunque di tuffarcisi a capofitto, con l’ingenuo trasporto di un bambino, ignorando i potenziali pericoli, e mantenendo comunque intatta la propria identità, anche morale e religiosa. Ciò la renderà un personaggio trasparente e lineare all’interno di una vicenda per il resto intessuta di fosche ambiguità, rappresentate da una certa mentalità patriarcale, in cui lo scambio, la compensazione e lo squallido compromesso prevalgono violentemente sulle modalità tipicamente femminili del dono, del perdono, della compassione. A confrontarsi sono un oriente solare e rarefatto, in cui si respirano i delicati profumi dello spirito, ed un oriente offuscato dai fumi di una cupa magia, che si nutre di sangue e menzogna. In mezzo scorre, solitario e un po’ sperduto, un occidente indeciso e fuori fuoco, che assiste, sbigottito, all’affondamento dei suoi storici principi in una melma di basso pragmatismo.
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