C’è chi, a proposito di Cry Macho, dirà che è un film minore, un film vecchio girato da un vecchio; c’è chi penserà che si sarebbe potuto fare volentieri a meno di una pellicola che, in sostanza, non aggiunge nulla all’opera di un regista che ha già dato tutto. Qualcun altro lo definirà come il perfetto epilogo di una grande carriera: l’ultima fatica, che racchiude in sé temi e stilemi del passato. Avrebbero tutti un po’ ragione e tutti un po’ torto. Nel frattempo il pistolero senza nome e col sigaro in bocca – lanciato da Sergio Leone in Per un pugno di dollari (1964) – continua a cavalcare indomito e a guardarci sornione da sotto la tesa del suo cappello da cowboy.
39 film da regista all’attivo (tra cui svariati capolavori), parecchi di più da attore, musicista blues per passione (ha composto le colonne sonore di molti suoi film), repubblicano per vocazione (ma progressista e libertario). Clint Eastwood è un simbolo, come avevano capito i Gorillaz omaggiandolo nella nota canzone: allo stesso tempo incarnazione del cinema americano e suo critico destrutturatore. In oltre sessant’anni di carriera ha avuto il pregio di essere rimasto sempre fedele a se stesso: granitico, imperturbabile, idealista, ironico, sentimentale. Così politicamente scorretto che a 91 anni ci consegna l’ennesimo lavoro da lui prodotto, diretto e interpretato: cinema fatto col cuore che, in un’epoca di blockbuster ipertrofici interessati solo a piacere al pubblico di massa, è un miracolo difficile da comprendere.
Dentro una Hollywood per cui la senilità è un tabù, Clint non ha timore nel mostrarsi orgogliosamente, gloriosamente vecchio. Fa una certa impressione vederlo ancora lì, vestito da gringo, alto e macilento, impacciato nei movimenti, solcato dalle rughe. Così diverso da come eravamo abituati a venerarlo sullo schermo: giovane e bello col poncho degli spaghetti western o spietato e reazionario nei panni ruvidi di Dirty Harry. Eppure, sotto il cappello lo sguardo è sempre quello, infossato in un volto di pietra.
Cry Macho a qualcuno non piacerà: statico, un po’ troppo semplice nella sua architettura narrativa, goffo come il suo protagonista. Attore e personaggio si confondono, sono qui – più di altre volte – un tutt’uno. «Un tempo tu eri forte, macho», dice il giovane. E il vecchio risponde: «Un tempo ero un sacco di cose, ma ora non più». La storia del protagonista – l’ex campione di rodeo Mike Milo – evoca con nostalgia vicende passate, già vissute da altri indimenticabili eroi eastwoodiani: l’addestratore di cavalli Bronco Billy, l’allevatore Will Munny, il fotografo Robert Kincaid, il reduce Walt Kowalski, il floricoltore Earl Stone. Cry Macho potrebbe essere il terzo capitolo – dopo Million Dollar Baby (2004) e Gran Torino (2008) – di un’ideale trilogia sui padri, tentativo manifesto di lasciare qualcosa alle generazioni future: coerenza, integrità morale, impegno, disciplina, senso del dovere. Rispetto e cura dei sentimenti, propri e altrui. Clint Eastwood custodisce il fuoco e ci rivela che non bisogna aver paura di innamorarsi, scappare, piangere e ballare. Anche da vecchi, anche da ex duri.
Cry Macho non è un western crepuscolare che racconta la grande menzogna del mito della frontiera, decretando di fatto la fine di un genere; Clint, che quel genere aveva contribuito a rinnovarlo, questo lo ha già fatto in modo magistrale con Gli spietati (1992). Non è nemmeno un film in grado di fotografare con amarezza e disillusione la società americana, rivelandone la violenza congenita e l’ipocrisia morale; anche questo Clint lo ha già raccontato in Mystic River (2003). Non è un film sulle seconde-terze-quarte chance offerte dalla vecchiaia, per quello c’è il sottovalutato Space Cowboys (2000). E decisamente non è un’opera testamento: pure quella Clint l’ha già realizzata tredici anni fa con Gran Torino, in cui compariva addirittura dentro a una bara mettendo in scena il suo funerale.
Allora che cos’è Cry Macho? Semplicemente l’ennesimo, instancabile, atto d’amore per il cinema. On the road oltre frontiera, storia di un cavaliere pallido che – a dispetto del sottotitolo – decide di non tornare a casa, dopo aver molto viaggiato e molto imparato. Alla fine, lungo la linea dell’orizzonte resta solo la sagoma di un uomo col cappello, disteso nella prateria a guardare le stelle.
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