Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
C’è uno spettro che si aggira per il Far West (e per il western). È la figura spettrale di Clint Eastwood, uno scheletro sconquassato vestito di pantaloni e camice larghe, con un grosso cappello da cowboy che si staglia in controluce. Cry Macho sta a Bronco Billy (1981) come Gran Torino (2008) stava al ciclo dell’ispettore Callahan, e quindi, come per Bronco Billy non si può parlare di western vero e proprio – e nemmeno di neo-western perché è tutta un’altra cosa, ma quasi nessuno l’ha ancora capito – si può parlare invece di western moderno, contemporaneo, o meglio, della rappresentazione contemporanea e attualizzata della frontiera, della figura del cavaliere pallido ed errante e di tutta l’iconografia del genere.
Non è un mistero che dagli anni ’90 Clint Eastwood abbia piano piano smontato i personaggi iconici che lo avevano reso leggendario, ovvero cowboy e poliziotti, e le sue ultime interpretazioni/opere senili hanno ovviamente spinto il piede sull’acceleratore di questa decostruzione che da Gran Torino è passata da The Mule per arrivare a Cry Macho, passando anche da Trouble with the Curves (Lorenz, 2012), nonostante in questo film, oltre a non firmarne la regia – anche se lo zampino si percepisce – riprendeva un altro suo grande carattere, trasversale ai precedenti, ovvero il padre disfunzionale già visto in Absolute Power (1997).
Paul Schrader è stato lapidario nel suo giudizio, ma non a torto. Se la fotografia di Ben Davis è una delle chiavi di lettura del film, come il montaggio sempre chirurgico e azzeccato di Joel Cox e la colonna sonora di Mark Mancina, va detto però che ci sono alcuni set, oggetti di scena e costumi così posticci da essere quasi imbarazzanti (pensiamo a com’è vestito lo sceriffo del paesino di Marta, o lo stesso Eastwood quando indossa abiti messicani). Può essere una scelta precisa, di completo disinteresse per orpelli profilmici quando tutte le energie dovevano essere concentrate su ben altro, sulla storia. Tant’è che infatti Eastwood sbriga rapidamente i convenevoli d’apertura, con i quali tratteggia il carattere del personaggio identificandolo con il vecchio pick-up malandato e la burbera etica del singolo che ne è la base ideologica da sempre, per poi rallentare e letteralmente fermarsi nel racconto prosaico, quasi tedioso, dell’idillio bucolico messicano. Un non-luogo di cui è difficile capirne i confini e le ubicazioni, quasi come se fosse locus amoenus fantastico, collocato in una terra di mezzo tra i due confini, una sorta di zona franca in cui il tempo è sospeso. È questa mi pare la vera urgenza di Clint Eastwood regista in Cry Macho, soffermarsi sulla storia, un po’ commedia, un po’ dramma d’azione, per soffermarsi sul senso etico e civico di un old american che ha ritrovato il suo posto nel mondo. Eastwood ha preferito soffermarsi a lungo sui piccoli gesti, sulle singole battute, lapidarie e secche, così come sui campi lunghi e lunghissimi con cui l’occhio abbraccia il terreno messicano che tanto ricorda la vecchia Almería spagnola; per non parlare degli ambienti, gli unici davvero genuini, ruspanti e concreti, viscerali si potrebbe dire, quasi una proiezione dell’animo dei personaggi: il santuario scalcagnato in cui trovano riparo Mike Milo e Rafo, la posada di Marta, il maneggio sgangherato in cui Mike doma i cavalli, insegna il mestiere a Rafo e guarisce come novello curandero i mali degli animali locali.
Ma Eastwood soprattutto ha voluto avere tutto il tempo per soffermarsi sui corpi dei personaggi. In particolar modo il corpo drammaticamente eastwoodiano che fa i conti con la vecchiaia, quella vera stavolta, quella della pelle che si raggrinzisce e aderisce alle ossa scavando il volto e il corpo; quella vecchiaia che incurva, ingobbisce, storta definitivamente lo scheletro abbandonato dai muscoli e fa dell’uomo di cui era statuario simulacro un pugno di rametti secchi.
Ma eastwoodiano è anche il corpo del giovane Rafo, brother in law del Thao/Tardo di Gran Torino. Scosso da un’infanzia di abusi solamente accennati – notare la delicatezza con cui Eastwood ne tratta senza cadere nel morboso, giocando di scarto con la tempra e la saggezza del suo personaggio – e percosso dalle mani severe di un uomo che non è suo padre, ma solo uno dei tanti uomini della madre alcolizzata.
In entrambi i casi, il corpo vecchio e rinsecchito del senex e quello giovane e vigoroso del puer, ci sono botte, lividi e vecchie cicatrici che mappano la geografia dei sentimenti dei due caratteri che a poco a poco si scoprono molto più vicini di quel che sembra. E anche in questo Eastwood rispolvera il rapporto dell’uomo adulto e dell’adolescente che tanta letteratura americana e non, come tanto cinema, ha da sempre trattato forse per esorcizzare la morte, forse per giustificarla, forse per equilibrare distanze inavvicinabili, forse per trasfigurare la tensione del vecchio che ammira il corpo giovane che non ha più permettendo al giovane di osservare e anelare al corpo adulto e vecchio che un giorno sarà. Il cerchio della vita che si chiude e trova la sua ragione d’essere proprio nella continuità circolare che si perpetua senza chiudersi. Un rapporto che Eastwood aveva già trattato indirettamente in A Perfect World (1993) e che ha sentito di dover dirottare sulla sua pelle prima in Million Dollar Baby (2004), poi in Gran Torino, ma anche in Trouble with the Curves quando si accolla Justin Timberlake, e infine in Cry Macho. Infatti, a parte qualche caso isolato come in Thunderbolt and Lightfoot (Michael Cimino, 1974) dove accudiva un giovanissimo Jeff Bridges o in Heartbreack Ridge (1986) dove si prendeva cura a modo suo di un plotone di giovani reclute dei marines, nel cinema di Clint Eastwood non c’è mai stato troppo spazio per i giovani, gli adolescenti o i bambini – questi ultimi costantemente sullo sfondo etico di Bronco Billy. È sempre stato un cinema per uomini adulti, i cosiddetti macho movies a cui ovviamente questo Cry Macho vuole essere compendio e allo stesso tempo parodia e reboot, quasi come se Eastwood concepisse Mike Milo esattamente come Cervantes concepiva il suo Don Quijote.
Se Schrader è stato impietoso, pur intravedendo reali difetti tecnici, è stato anche miope nel non intravedere in Cry Macho l’estetica e la narrativa eastwoodiana più pura, anche se un po’ acciaccata dall’età del regista. Il rigore con cui Eastwood decide di strutturare le modulazioni narrative, passando da scene frettolose – la leggendaria “buona la prima” – brevi quanto basta per passare il concetto narrativo preposto, a scene lente, diluite nei tempi, dove il regista ultranovantenne permette all’attore ultranovantenne di prendersi i suoi tempi, i nuovi tempi dell’anzianità, delle nuove fisiologie e nuove necessità di un corpo in decadenza. Sono anche le scene più riuscite, quelle in cui l’azione lascia spazio ai dialoghi, alle inquadrature fisse, ai dettagli dei volti, così ben fotografati e ripresi da poter intravedere una lacrima scendere lungo il volto ruvido e secco di Mike Milo quando, sdraiato su di una panca dentro lo scalcagnato santuario della Vergine Maria racconta a Rafo il suo passato di padre e marito. Se la lacrima sia stata aggiunta in postproduzione oppure no, poco importa.
Importa invece che questo film, anche lui scalcagnato e sgangherato come gli ambienti, i mezzi, i costumi, i corpi dei suoi attori, abbia pienamente centrato l’obiettivo, ovvero, sul piano prettamente narrativo di raccontare una storia semplice e lineare, dotata di quel Eastwood touch che pochi ancora vedono, e sul piano formale, ma anche ideologico, spiazzare nuovamente lo spettatore dei primi vent’anni del XXI° secolo, ricordandogli che non è tutto bianco e nero nella vita, che i confini, le etnie, le culture, proprio come in Gran Torino, sono labili quanto fumose e spariscono appena l’uomo butta l’occhio e il cuore oltre quel confine e ritrova altri uomini. Eastwood ricorda che possono cambiare anche i secoli, ma i dubbi dell’essere umano restano. E proprio come il Red Garnett di A Perfect World sentenzia «Io non so niente. Non lo so e non lo voglio sapere», Mike Milo, molto più serenamente, conforta il giovane Rafo con queste parole: «Pensi di avere tutte le risposte, poi, come invecchi, capisci che non ne hai nessuna». Un po’ Socrate, un po’ Clint, ma Mike Milo e tutti quei volti di pietra che l’hanno preceduto, hanno da sempre raccontato lo stesso uomo, con le stesse paure, gli stessi dubbi, le stesse debolezze e ambiguità. Se quando si parla di Eastwood si scomoda l’umanesimo, un motivo c’è.
Pur tacciato di fascismo ai tempi di Callahan – quando Don Siegel era una bandiera della sinistra americana, e i due insieme hanno girato ben cinque film – e pur avendo votato Trump, i due Bush e aver parlato con la sedia vuota di Obama, Eastwood è stato e sarà sempre l’antieroe enigmatico, lo straniero senza nome che ha problematizzato l’uomo contemporaneo.
Resta negli occhi e nel cuore la chiusura del cerchio. Eastwood nasceva cowboy, a cavallo, con sigaro, cappello e poncho, e ora se ne va nel deserto messicano, senza poncho, senza sigaro, ma con il cappello e tanti cavalli selvatici da domare. Se ne va prosaicamente, senza l’epica del sacrificio finale di Gran Torino. Guarda Rafo abbracciare suo padre: «Ciao ragazzo», e poi gira i tacchi, gallo in braccio, e salito su una nera Mercedes se ne va alzando una nuvola di polvere. È vero, lo rivediamo ancora, in controluce, ballare sulle note di Sabor a mí, in ultimo momento di pace, trovato oltreconfine, in una terra desertica, brulla, lontana dalle sirene del capitalismo e dagli odi razziali, nel grembo di una donna messicana – forse la stessa che le donò il cuore in Bloodwork (2002) – con cui ritrova l’amore anche senza ritrovare virilità, vigore o quel machismo da cui si affranca bellamente senza retorica. Ma è quel “ciao ragazzo” con cui esce di scena a colpire per velocità ed efficacia. Forse il suo colpo… «…al cuore, Ramón, al cuore!».
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