Regia di Joe Penna vedi scheda film
Le fredde equazioni.
“StowAway” (Clandestino), l’opera seconda di Joe Penna dopo l’esordio di “Arctic” (entrambe scritte con Ryan Morrison), del quale in pratica è una specie di riedizione 2.0 che sposta il survival movie dal freddo polare a quello spaziale in direzione Marte, con SpaceX/Tesla (& NASA/JPL) sostituiti dai soli capitali privati della H.A.R.P. (Hyperion Academy Research Program), è una ghiotta occasione persa: al contrario di quanto accade per “the MidNight Sky” il difetto insormontabile del film con la sempre apprezzabile Toni Collette (Velvet Goldmine, the Sixth Sense, In Her Shoes, United States of Tara, Wanderlust, Hereditary, Unbelievable, Knives Out, I'm Thinking of Ending Things), la seconda buona prova di séguito (è un record), dopo “the Day Shall Come”, per Anna Kendrick, e Daniel Dae Kim (“Lost”) e Shamier Anderson (“Wynonna Earp”) a chiudere il cast, non è la caterva di implausibilità scientifiche (presenti, ma in maniera nettamente meno invasiva e ben più adatta ad innescare la sospensione dell’incredulità, e ben compensate al contrario da una verosimiglianza tecnologica piuttosto ben inscenata e utilizzata, specialmente nei primi dieci minuti, con la partenza dalla superficie terrestre, l’aggancio alla stazione spaziale in orbita e la separazione dei due moduli principali ruotanti s’un centro comune con l’insorgere conseguente della forza centrifuga atta a ridare il giusto peso a persone e cose), ma il mero fatto che un sano e serio b-movie duro e puro non dovrebbe, di norma e al netto delle eccezioni motivate, superare i 90’ compresi i titoli di coda, mentre qui invece si raggiungono praticamente le due ore, incerte se dedicarsi con più efficacia al lato umanistico o a quello scientifico, e inoltre ciò avviene anche per (de)merito del, anzi proprio in gran parte grazie al, climax (troppo) prolungato della scena madre posta a 4/5, là dove quel magnifico passo del XXXIV canto dell’Inferno della Commedia dantesca (...quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto...
...al qual si traggon d’ogne parte i pesi…) trova esplicitazione meccano-fisica nella scalata e poi nella discesa lungo l’asse del cavo che bilancia la rotazione di astronave e vettore creando una giusta dose di gravità artificiale, e questo è ciò che accade: la tensione insostenibile della scena, protratta sino allo sfinente spasimo, nelle intenzioni a guisa d’iperrealismo, del quasi “live & direct”, col tempo dell’azione filmica che pur non coincidendo con quello del “reale rappresentato” gli si avvicina molto, trova la propria controparte/nemesi nel fatto che lo spettatore nel corso del film si è sì potuto affezionare ai personaggi, entrando in empatia con essi, ma non così tanto, ed ecco che si ritrova perciò come i protagonisti alle cui avventure sta assistendo: al contempo ammaliato e allontanato dai due poli attrattivi/respingenti: l’immedesimazione emotiva risulta ovattata e l’action non produce una sufficientemente costante tensione [peraltro appesantita dalla coincidenza forzata del classico, inevitabile, scontato e (in)tempestivo brillamento eruttivo solare con espulsione di materiale carico ad alta energia dalla corona: confrontare l’utilizzo che se ne fa, con ben altri esiti, nella seconda stagione di “For All Mankind” per credere], contestualizzando il tutto ai vari differenti livelli produttivi, né dal PdV documentaristico (“2001: a Space Odyssey”) né da quello prettamente coreografico (“Gravity”).
- Non mi abituerò mai a quanto sia sottile il poco materiale che ci divide dal vuoto dello spazio.
- Eh sì, lo so. Quando hanno iniziato a lavorare per aggiungere un terzo passeggero, per compensare il peso hanno ridotto di quasi la metà il modulo funzionale e hanno rimosso uno strato protettivo di schermatura.
- Ehi, non è d’aiuto, potevi risparmiartelo.
- È solo un dato di fatto.
- Non è una cosa utile da dire!
- È solo un dato di fatto!
La fotografia di Klemens Becker, il montaggio di Ryan Morrison e le musiche di Hauschka, alias di Volker Bertelmann (ed il loro utilizzo), non fanno la differenza, ma gli effetti speciali teutonici (i set sono quelli tedeschi di Colonia e Monaco) supervisionati da Jacob Balicki un poco sì.
Premesso che c’è ben di molto peggio, spiace, perché davvero poteva essere (con un quarto d’ora in meno, od altrimenti occupato) ben altro (si considerino piccoli gioiellini quali "Europa Report" e "Prospect"). Comunque godibile.
* * * ¼ - 6½
Postilla.
Il concetto contenutisticamente “rivoluzionario” [che dalla ingenua naïveté dell’Età dell’Oro - periodo che, ovviamente, ha sfornato altresì caposaldi e capolavori solidi e concreti - ha spostato di un passo la SF verso l’Età (compiutamente) Adulta] alla base di “The Cold Equations” (“Le Fredde Equazioni”), il racconto breve di Tom Godwin (1915-1980) pubblicato nel 1954 su “Astounding Magazine” che ha evidentemente ispirato la storia narrata sulla lunga distanza da “StowAway”, era già stato traslato cinematograficamente alcune volte nel corso del tempo (una puntata del radiodramma antologico statunitense degli anni 50, “X Minus One”, un episodio della serie televisiva britannica degli anni 60, “Out of This World”, un episodio di una delle riedizioni di “the Twilight Zone”, quella degli anni 80, e due lungometraggi, uno televisivo di metà anni 90 e uno cinematografico d’inizio anni 10) , e il buon pen-ultimo (è del 2014) cortometraggio (al quale potete assistere qui sotto dalla pagina YouTube dedicatagli dalla fantastica DUST) del thailandese Rpin Suwannath (assistente alla regia, direttore di seconde unità e addetto alla pre-visualizzazione degli effetti speciali, dalla saga degli X-Men a quella del MonsterVerse), che porta lo stesso titolo del film di Joe Penna, lo mette in scena pedissequamente (il modo migliore) con secca grazia minimale. Se le due ore da dedicare al film Netflix vi sembrano troppe perché dovete riservarle all’ultima mattonata di, che ne so, Vadim Perelman, trovate una dozzina di minuti per guardare il corto. (Per un qualsiasi sano amante della SF invece, va da sé, non v’è alcun bisogno d’incentivarne la fruizione.)
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