Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Venezia 78. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
"Hai vinto l'America" sentivo dire dai vecchi fino a qualche anno fa. Ora non più. Ora non così spesso. Quei tempi sono conclusi e persino l'America arranca, oramai orfana di quello status di albero della cuccagna che padri e nonni ancora le riconoscono.
Lo era anche "Lamerica" di Gianni Amelio un paese dei balocchi. Anni '90. Lontani, trent'anni, da questo continuo sfarfallio che impedisce di vedere chiara e nitida l'immagine del presente. Lamerica ameliana era un'entità fisica precisa. Un luogo geo-fisico. Era il nostro paese, meta e castigo per gli albanesi che vi cercavano rifugio, fortuna e, perché no, facili guadagni. All'epoca la tratta dei migranti partiva dalle coste balcaniche. Le acque agitate di fronte all'Africa e alla Siria erano un mormorio impercettibile. Un faccendiere italiano attraversava la barricata che divideva i poveracci dai loro traghettatori. Calato nei panni dei clandestini ne divideva drammi e sofferenze come un qualsiasi fuggiasco.
Ben altra cosa è L'America dei fratelli D'Innocenzo. Non è più un luogo fisico, un mare da attraversare, un porto sicuro da raggiungere. La loro America è una condizione inafferrabile dello spirito. Direi un'inquietudine, un'insoddisfazione che si amplifica nella materialità del presente. Il protagonista di "America Latina" è un uomo adulto, un medico dentista che si è costruito una solida posizione ed è riuscito laddove un pessimo rapporto col padre lasciava presagire una vita di fallimenti personali e professionali. Massimo, questo il suo nome, ha tutto ciò che un uomo possa desiderare: una villa perfetta e rassicurante, un focolare domestico custodito abilmente dalla compagna e dalle figlie già grandi. E poi c'è la macchina, lo studio, l'amico fidato che, nelle presunte difficoltà professionali, riverbera i riflessi della bonaria e paternalistica superiorità del medico affermato che ogni tanto torna ragazzino in compagnia di una birra in una pacifica stradina di campagna. Una vita al massimo se i nomi contano a qualcosa. Ma c'è un ma. La casa non è un bucolico rifugio e le ciocche bionde che si adagiano leggiadre sulle spalle delle donne di casa offuscano un disagio crescente nel loro padre e marito. C'è una ragazza nello scantinato. C'è un tarlo che mangia la materia mentre l'acqua si alza fino a far traboccare il vaso colmo dell'ultima goccia. Il raziocinio si è assottigliato fin quasi a sparire nel posto più recondito della mente, in quella cantina ormai satura di malessere e disperazione.
Il film dei fratelli D'Innocenzo è un incubo, una malattia, un thriller dell'inconscio. È l'espressione di un disagio psicologico che ha radici lontane nel tempo.
Elio Germano molto bravo e misurato nella parte di Massimo è parte centrale dell'allucinazione dei gemelli romani che indagano la contemporaneità attraverso gli scherzi di una mente offuscata dal disagio esistenziale. Una ragazzina imbavagliata e le figure angeliche sulla scala sono il delirio di Damiano e Fabio D'Innocenzo, un delirio che si scopre pian piano e che, nonostante qualche tentativo di depistaggio nella scrittura, non può che dipanarsi tra le mura di cemento di quello spazio inospitale. Forse il limite di questo film, se così si può dire, è quello di proporre due sole alternative alla risoluzione del caso. L'io razionale spinge prima in una direzione ed infine verso l'altra, se vogliamo ancora più triste e priva di speranza. Non c'è via di scampo dalla solitudine e dalla malattia. Del resto l'America dei fratelli D'Innocenzo sta nella provincia di Latina. È un'America imperfetta, direi superata, in cui il benessere emotivo e psicologico hanno lasciato posto al vuoto dell'american dream. L'America dei gemelli romani è pur sempre Lamerica. Non quella a stelle e strisce. Forse più simile a quella turbolenta, problematica e imperfetta sotto l'equatore. Quella Latina.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta