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Il Decameron

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Il Decameron

di EightAndHalf
8 stelle

Boccaccio, con il Decameron, aveva creato un capolavoro di straordinaria audacia, un grandioso affresco di pura vitalità, in cui era impossibile la considerazione di una morale assoluta, e ne serviva una relativa, per i più scomoda, ma in grado di affrontare qualsiasi tipo di situazione. Di questo, nel Decameron pasoliniano, rimane poco o niente, se non quella vitalità che scaturiva cruda sebbene raffinata dalle pagine di Boccaccio. Questo non perché Pasolini non abbia capito l'opera boccaccesca, capolavoro assoluto della letteratura europea, ma perché in quanto autore ne ha dato una reinterpretazione cinematografica, che, nella sua apparente grossolanità, ha trasceso quella che poteva essere la mera riproduzione di un'opera letteraria. La bravura del regista italiano, oltre alla sua enorme audacia nelle consuete e frequenti scene erotiche (nella versione integrale assai esplicite, almeno per i tempi, ma anche oggi c'è chi storce il naso), sta nell'eliminare la cornice narrativa ed estendere all'intera condizione umana quel caos e quella confusione che vive Andreuccio da Perugia giunto nella grande città, tradito e usato, infine sopravvissuto: le certezze si sgretolano, gli affetti si dimenticano, la realtà si impone non grandiosa, eclatante o fredda, ma calda, appiccicosa, lurida, quasi lo sfondo di un trash intellettuale. Pasolini non bada a schemi cinematografici classici, prende alcune storie e le rende cornici, altre le abbrevia, altre non le inserisce proprio, in un quadro che più che edonistico appare provocatorio, più che "sboccacciato" appare crudissimo. Esistono infatti tanti tipi di inganni in Pasolini, quello della santità, quello dell'amore eterno, quello della sessualità, quello delle divisioni sociali, ma soprattutto due, appartenenti alla novella di Ser Ciappelletto e a quella in cui vediamo Pasolini stesso pittore: l'inganno della cecità spirituale e l'inganno della (volontaria) cecità razionale, o meglio, l'inganno dell'arte. Se nella prima metà gli episodi si susseguono caoticamente ma lasciando l'idea di un mondo fastidioso e quasi indegno di essere vissuto (la potenza sinestetica, almeno per quanto riguarda l'olfatto, della caduta nella latrina di Ninetto Davoli rimane insuperata nel panorama del cinema italiano), nella seconda metà rimane il caos ma lo si spiega, lo si "razionalizza" con il sogno dell'arte, si trova una sua localizzazione: la realtà è mostruosamente violenta, rude, vitale, certo, e non criticabile, ma meccanica e istintiva, incapace di dare soddisfazione a chi cerca altro. Così, dopo un viaggio negli inferi del luridume, in cui raramente spiccano la furbizia, l'amore o l'affetto in generale, ecco il sogno del Giudizio Universale (Silvana Mangano in una brevissima apparizione nel ruolo della Madonna), in cui il Paradiso (e il senso della vita) rimangono un sogno. "Perché raccontare un sogno quando è così bello sognarlo e basta?". La vita ci offre quello che ha, nella bassezza dell'essere umano: sta all'essere umano singolo vivere il proprio sogno e farsene commuovere. L'arte, almeno quella di oggi (opposta a quella di ieri, a cui il Pasolini-pittore è costretto) e quella di Boccaccio, hanno voglia di raccontare il reale, senza compromessi, in tutti i suoi aspetti. E il film assume un senso che altrove, nelle "sboccacciate" commedie di costume, non si ritrova mai. Per ilarità e divertimento, però, rimane migliore I racconti di Canterbury.

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