Regia di Pierfrancesco Diliberto vedi scheda film
Sarà pure scocciante ripetersi (vedi quanto ho scritto in apertura della recensione di Don’t look up) ma non è pensabile esimersi dal farlo quando non c’è limite al peggio e intorno a te vedi aumentare esponenzialmente le situazioni grottesche spacciate come una nuova normalità, vendute nella rassicurante veste di soluzioni innovative per risolvere problemi atavici.
Fatto sta che un po’ tutto sta degenerando, la retta via è smarrita da tempo, ma anche quella della semplice decenza comincia a denotare preoccupanti segni di cedimento, uno scoramento che stiamo facendo finta di non vedere.
A questo punto, non so più cosa pensare e forse Pif, con il suo tanto volonteroso quanto parzialmente maldestro film, non è poi andato così tanto lontano da quanto sta drammaticamente prendendo forma.
La vita perfetta di Arturo (Fabio De Luigi – 10 giorni senza mamma, Happy family) va improvvisamente in mille pezzi quando, nel giro di poco tempo, perde la fidanzata (Valeria Solarino – Vallanzasca. Gli angeli del male) e riceve il benservito da quel lavoro da manager che gli garantiva uno stile di vita agiato.
Così, è costretto a condividere il suo appartamento con un coinquilino (Pierfrancesco Diliberto – Momenti di trascurabile felicità) e a cercare un nuovo impiego che, dopo svariati rifiuti, trova come rider per Fuuber, una multinazionale che spreme a dismisura i suoi dipendenti.
Nel frattempo, trova un po’ di conforto grazie a Stella (Ilenia Pastorelli – Lo chiamavano Jeeg Robot), un ologramma a pagamento che soddisfa il suo bisogno di compagnia.
Quando la sua situazione precipita definitivamente, Arturo decide di prendere il toro per le corna, di andare contro ogni regola, anche quelle del buon senso.
Dopo l’esordio con il botto de La mafia uccide solo d’estate, con In guerra per amore il buon Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, aveva alzato l’asticella per poi rintanarsi in un cantuccio accogliente, un limite che in E noi come stronzi rimanemmo a guardare, un titolo emblematico e da colpo d’occhio, acquisisce – ahinoi - ancora vigore.
Le premesse sono stimolanti. Infatti, immagina un futuro, non meglio definito ma decisamente prossimo, che non si discosta dalla tendenza già in atto, che smaterializza i lavoratori, allargando esponenzialmente la sperequazione tra chi sta economicamente bene e chi invece deve farsi in quattro per sbarcare il lunario.
Quindi, affronta il mondo del lavoro, nel quale i fallimenti arrivano ex abrupto, lo sfruttamento (qui di una multinazionale chiamata Fuuber, una sinistra crasi tra Uber e Fuhrer) è spacciato per imperdibile opportunità, dove tocca piegarsi per (tentare di) restare a galla, tra mille affanni, sempre di fretta vivendo in solitudine per un tozzo di pane, e la mancanza di rispetto è all’ordine del giorno
In aggiunta, ogni desiderio è affidato alle applicazioni, mentre l’insoddisfazione è alleviabile esclusivamente mediante il ricorso a servizi a pagamento.
Un complesso sulla carta veramente ottimo, purtroppo danneggiato da uno svolgimento masticato, poco incisivo, e da una scarsa qualità della descrizione delle singole dinamiche, aspetti che depotenziano il tessuto, che poi finisce irreparabilmente impelagato nella sabbie mobili nel momento in cui ripiega sulla tradizionale e ostativa, quantunque ragionevole, ricerca dell’amore come unica soluzione per ogni male, sicuramente una panacea attendibile, tuttavia, per com’è formulata, complessivamente insoddisfacente e fiacca.
In ogni caso, rimane pertinente la scelta di utilizzare Fabio De Luigi come volto rappresentativo di chi subisce, chi accetta tutto supinamente, un medio man portato controvoglia a commettere errori, a scivolare verso il basso raschiando il fondo del barile fino a bucarlo, per poi vedere che sotto non c’è nulla, mentre è assai meno credibile nell’atto della reazione, per quanto non sia certo lui il colpevole di una virata mediamente spuntata.
In definitiva, E noi come stronzi rimanemmo a guardare mette il dito nella piaga, per poi procedere a doppia velocità, con un contesto generale compromesso, concettualmente convincente ma incrinato da innesti convenzionali, che lo rendono prevedibile e più dolceamaro di quanto avrebbe potuto/dovuto essere.
Tra intenzioni lodevoli e un fiato sempre più corto, richieste sempre maggiori e strumenti inadeguati, reale e virtuale, privazioni e dipendenze, distanziamenti e necessità di un contatto, surrogati e calore fisico, situazioni scontate eppure stridenti, il proliferare di algoritmi discutibili per ottenere le risposte che ci servono e la mancanza di alternative considerabili come fattivamente praticabili.
Accattivante e gracile, sincero e ingenuo.
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