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Le cinque giornate di Milano

Regia di Leandro Castellani vedi scheda film

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La recensione su Le cinque giornate di Milano

di lamettrie
8 stelle

Un grande lavoro per la televisione. Si era nel cosiddetto ’68: splendida è l’attualizzazione delle lotte per la libertà del Risorgimento, confrontate con le lotte di quel momento contro l’imperialismo capitalista. Memorabile, in tal senso, è la scena iniziale, con la fabbricazione della bomba, come anche quelle delle barricate (e chi scrive qui non ha particolari nostalgie di quel genere di lotta, sia chiaro).

Straordinaria è poi la veridicità del contesto storico: la presentazione dei personaggi, così come la loro contestualizzazione, non fa una piega. In ciò aiuta, assieme al rigore della sceneggiatura, anche il grandissimo livello tecnico della recitazione, che rende merito alla grande tradizione attoriale italiana, tale quale si è mostrata nel teatro, e che proprio a Milano ha conosciuto il suo apice: indimenticabili sono tante maschere, tra cui svettano Raoul Grassilli nelle vesti di Cattaneo, e Luciano Virgili, nei panni di Enrico Cernuschi, il monzese vero motore dell’insurrezione. A ciò si aggiunge un accompagnamento musicale ottimo, e del tutto attuale allora, quello di Carlo Nistri; una fotografia straordinaria, specie nel ricorso frequente al primo piano, come al movimento sussultorio, tipico nelle situazioni drammatiche in battaglia.

Cinque puntate, da quasi un’ora l’una, fanno più di quattro ore e mezza di pellicola: ma non annoiano mai, tranne forse l’ultima puntata, un po’ troppo sperimentale nella resa.

Il film è utilissimo poi, e soprattutto, per capire la realtà del Risorgimento. Non fa una piega la lettura che ne dà il migliore interprete di quel periodo, quel milanese Cattaneo che è tuttora troppo ignorato: l’Italia che è nata allora (cioè 12 anni dopo) è stata più un male che un bene. Bene per aver liberato l’Italia dagli stranieri, e per avere in parte svecchiato, almeno per quello che era il momento, la tradizionale ingiustizia cattolico-nobiliare. Ma il male è stato molto di più: gli italiani avevano bisogno di un repubblica federale, dove tutte le differenze fossero rispettate. Che fosse una repubblica, appunto: dove tutti fossero liberi, e uguali nella libertà. Il passaggio negativo è stato quello da un dominio dispotico, cioè monarchico e aristocratico come quello austriaco, a un altro dominio dispotico, come quello piemontese.

Grande è la resa della lotta, così eroica quanto inaspettata, che i milanesi hanno svolto per la libertà. Splendido anche il ritratto dell’aristocrazia: laida, opportunista, ben impersonata dal podestà Gabrio Casati (una vergogna che ci siano ancora vie intitoliate a quel genere di squallido collaborazionista), e da tutto il suo codazzo di nobili, i quali avevano l’unico loro interesse nel mantenere la disuguaglianza: che questa fosse garantita dalla Austria o dal Piemonte, poco cambiava, purché gli uomini continuassero a essere disuguali. L’eterna scandalosa giustificazione del prevalere, ingiustificabile, di pochi sui molti, è qui ben presente.

Poi è chiaro anche il valore effimero, e più che altro morale,  di tale cacciata dell’occupante straniero: il quale infatti semplicemente si ritirò provvisoriamente, sotto la guida di quel Radetzky straordinariamente interpretato da Vittorio Foa, per poi riprendersi Milano, sconfiggendola e sconfiggendo i piemontesi.

Commuovente è perciò la restituzione dell’illusione della vittoria e della liberazione, che non aveva riscontri realistici allora. Una vittoria che, per essere definitiva come auspicava il grande Cattaneo (e nessun altro come lui, neppure lontanamente), richiedeva condizioni sociali, economiche e culturali che non erano ancora state create da coloro che si sarebbero poi avvantaggiati da tale cambiamento: cioè da tutti coloro che subivano immotivate ingiustizie.

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