Regia di Rupert Wainwright vedi scheda film
Nel filone millenaristico esploso a fine secolo questo “Stigmate” rispetto al demenziale e grossolano “Giorni contati” con Schwarzenegger e al monocorde e piatto “Lost souls” con Winona Ryder è il meno peggio. Se non altro non ci si annoia. Partendo dalla scoperta nel 1945 a Nag Hamadi della pergamena dei “Detti segreti del Gesù vivente”, in base alla quale molti studiosi sostengono che il vangelo di San Tommaso sia il documento più fedele ed attendibile circa le parole di Gesù, documento bollato come uno scritto eretico dal Vaticano che rifiuta di riconoscerlo, come apprendiamo alla fine del film, l’opera del protestante Rupert Wainwright (prossimo regista del remake di un cult di John Carpernter vale a dire “Fog”) sfida senza pudori e senza paura il Vaticano (un bel coraggio nell’anno del Giubileo, il 2000), non tanto nel consueto e ormai piuttosto abusato ritratto di un cardinale, interpretato da Jonathan Price, ambiguo, corrotto, cinico, meschino e losco, pronto anche all’omicidio pur di difendere la propria autorità terrena, o negli inutili e gratuiti accenni sentimentali alla “Uccelli di rovo” tra Frankie e Padre Kiernan, quanto nella filosofia di fondo che porrebbe fine alla gerarchia ecclesiastica: “Il regno di Dio è dentro di te: è tutto intorno a te. La vera Chiesa di Gesù Cristo è molto di più: non è in templi fatti di legno o di pietra. Io amo Gesù. Non mi serve un’istituzione tra me e Lui. Solo Dio e l’uomo. Niente preti, niente Chiese. Spacca un pezzo di legno e io ci sarò: solleva una pietra e mi troverai”, si dice nel film. Dialoghi che pesano come macigni e che ovviamente hanno fatto infuriare le alte sfere della Chiesa. Al di là del messaggio, per molti versi blasfemo e certo discutibile (“traffica senza pudori in Vangeli apocrifi, manoscritti del Mar Morto, Francesco d’Assisi, Padre Pio e loschi intrighi romani, non senza qualche infetta scena sentimentale” - Morandini), comunque non nuovo (“Stigmate risulta pretenzioso nelle tesi teologiche conclusive, dato che una chiesa evangelica assoluta è un tema proposto 5 secoli fa da anabattisti, luterani, albigesi” Tempi Moderni) il film, successo a sorpresa al box office americano, sceneggiato da Tom Lazarus (un nome che è un programma) e Rick Ramage (sceneggiatore del pasticciato e ridicolo “La proposta” con Kenneth Branagh, film nel quale già si lanciavano diverse frecciate alla Chiesa, dato che il protagonista era un sacerdote che si innamorava di una donna e con lei faceva due figli, ma c’era anche un parroco interessato soprattutto a cene con i più importanti e facoltosi uomini della città che non alla cura delle anime) grazie ad uno stile che fa molto videoclip e/o pubblicità (è da lì, non a caso, che viene il regista e lo si capisce subito dai rumorosi titoli di testa che presentano la disordinata e movimentata vita di Frankie) e che comunque conferisce una forte ed impressionante carica figurativa all’opera, cattura con sequenze ad effetto suggestive ed improvvise (tutte le scene in cui Frankie riceve le stigmate sono indubbiamente ben realizzate). Scenografia raffinata, una cura cromatica non comune delle ambientazioni, una storia misteriosa ed inquietante che comunque ha un suo fascino, un ritmo teso, avvincente, veloce ed una notevole Patricia Arquette, nello stesso anno protagonista di una ben più intensa via Crucis in “Al di là della vita” di Martin Scorsese, sono gli altri meriti. Curioso poi come Gabriel Byrne passi con disinvoltura dal ruolo del diavolo (uno dei più comici mai visti al cinema) nel citato “Giorni contati” a quello di un prete fascinoso e non insensibile alle belle ragazze, esperto in esorcismi (“Il problema di padre Kiernan è che non riesce a decidere se è scienziato o un prete” dice di lui il cardinale Houseman) e statue della Madonna che piangono sangue (avrebbero dovuto mandarlo a Civitavecchia per risolvere il mistero delle lacrime della Vergine). Superflui i paragoni con “L’esorcista” (nel senso che il film di Friedkin rimane distante anni luce), eccessivi e alla lunga fastidiosi i continui giochi del regista con simboli quali l’acqua, le colombe e le candele, sfacciati i riferimenti e/o omaggi formali a “Seven” (specie nelle livide e piovose atmosfere), piuttosto bruttino, ingarbugliato, manicheo, goffo, approssimativo ed affrettato il finale con l’arrivo del cardinale Houseman a New York, la levitazione di Frankie e le fiamme dell’inferno che incendiano la stanza della ragazza (finale che evidenzia, peraltro, come oltreoceano si mantenga una visione stereotipata e posticcia della religione a Roma), bella e realistica l’affermazione di un sacerdote: “Viviamo in un mondo altamente competitivo: la Chiesa non fa eccezione”. Tra tante presunte assurdità teologiche dette nel film, almeno una verità sacrosanta ed incontestabile.
Voto: 6
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