Regia di Letizia Lamartire vedi scheda film
Il divin codino, lo sanno tutti, è Roberto Baggio, il più talentuoso calciatore italiano di tutti i tempi, a parere di chi scrive. Ma il vero protagonista del secondo lungometraggio di Letizia Lamartire non è il Roby nazionale, bensì suo padre, Florindo (Penacchi). Perché è da lui, padre di otto figli, che sono dipese le alterne fortune di quel fuoriclasse, amatissimo da Aosta a Lampedusa. O, almeno, questa è la chiave di lettura che offre in filigrana il film: una carriera – quella di Baggio – ondivaga, segnata non solo da clamorosi colpi di sfortuna, ma anche – se non soprattutto – dal rapporto difficile e conflittuale con molti allenatori, sui quali – probabilmente – il divin codino proiettava quella figura paterna così scostante, sempre avvezza alla critica e col broncio perenne. O forse no: Baggio è stato un prodigio che avrebbe potuto conquistare ben altri allori (il pallone d’oro nel 1993 fu uno dei più prestigiosi) se non fosse stato un alieno nel mondo del calcio, un grande uomo innamorato tanto del pallone quanto del buddismo.
Il film ha il merito di lanciare una sfida, imboccando la via meno facile: quella di raccontare soprattutto le sconfitte e le delusioni (il rigore sbagliato nella finale mondiale del 1994 contro il Brasile) e, al contempo, di concentrarsi molto più sulla vita privata che su quella pubblica. Così, lo spettatore che si aspetta di rivedere le pennellate di quello che, del tutto improvvidamente, l’avvocato Agnelli appellò come un “coniglio bagnato”, si trova addirittura di fronte a una (ridicola) ricostruzione di alcune delle imprese pedatorie più famose del protagonista: l’aspetto decisamente peggiore del film, insieme all’interpretazione offerta da alcuni comprimari inguardabili (la Bellè nel ruolo della moglie di Baggio, Zavatteri in quella di Arrigo Sacchi).
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