Regia di Damiano Damiani vedi scheda film
Questo è un titolo che si riesce a inserire con una certa fatica nella filmografia di Damiano Damiani: potremmo definirlo un “interludio vacanziero” che sconfina in inusuali tracciati narrativi (ma anche un presuntuoso atto di supponenza, se vogliamo essere un tantino più cattivi).
In ogni caso, rappresenta una evidente anomalia, tanto si pone lontano (nonostante un certo anticlericalismo di maniera) dalla vena più creativa e propositiva del regista (contraddistinta da un posizionamento anche ideologico di solido impegno sociopolitico prevalentemente orientato a rappresentare tematiche strettamente legate all’attualità o alla riproposizione critica di misconosciuti fatti riferiti a un passato non proprio remoto della nostra italica storia) che gli ha consentito di realizzare, probabilmente non proprio dei capolavori, ma certamente opere di forte impatto, intense e problematicamente appassionanti, di indiscutibile fascino coinvolgente.
A ben guardare però ci si accorge che ciclicamente Damiani è stato ripetutamente attratto proprio dal genere più commerciale che deborda nel “fantastico” (perché anche questa sua opera del 1974 ha indubbiamente qualche riflesso non tanto sotterraneo facilmente collegabile al paranormale): era gia accaduto nel 1966 con il non eccelso La strega in amore (sorretto e suffragato dalla qualità narrativa di Carlos Fuentes, autore del racconto Aura dal quale era ricavato il soggetto del film) e succederà di nuovo (e in maniera persino più truce) per esempio nel 1982, questa volta con una vera e propria full immersion nel filone horror (Amityville possession, ennesimo capitolo di una interminabile saga con la quale il nostro uomo aveva davvero ben poco da spartire). Corsi e ricorsi allora? Può darsi: sicuramente nel percorso operativo di una lunga e fruttuosa carriera, i salti di qualità, le cadute di stile, sono state per Damiani “incidenti” non isolati che spesso hanno reso irriconoscibile o difficilmente classificabile, una parte del suo lavoro più routiniero e meno personale.
Il sorriso del grande tentatore, al di là di alcune implicazioni un po’ metafisiche che ne accentuano una certa ambiguità di fondo, è comunque fra tutte (a mio avviso, ovviamente), proprio l’opera di più difficile collazione, poiché ha un andamento ondivago che la fa rimbalzare fra differenti “sponde” senza riuscire a definire un effettivo e decisivo “approdo” che le conferisca il senso univoco di una “scelta” e di orientamento. Si barcamena così fra varie suggestioni, a partire proprio da un titolo la cui valenza di derivazione dostoewskiana (di grande fascino evocativo per altro), è evidente, e tutt’altro che casuale: un riferimento aulico certamente scelto per dare maggior corpo e risonanza mediatica a una storia piena di arrovellate congetture implicative fra etica e coscienza, colpa e redenzione. Molta (troppa) carne al fuoco, insomma, che rischia di risultare fortemente indigesta: un caleidoscopio di problematiche non sempre ben amalgamate fra loro, che travolge un ventaglio di personaggi circoscritti nello spazio chiuso di un convento che fa da cassa di risonanza amplificata, come succede sempre quando si opera all’interno di un microcosmo ristretto come questo.
Si toccano argomenti scottanti che coinvolgono per esempio persino l’atteggiamento della chiesa nei confronti del nazismo e i dubbi pastorali di fronte alle rivoluzioni socialiste (gli unici elementi, insieme a quello dell’aspetto affaristico dell’organizzazione ecclesiastica, pure trattato, che potrebbero in un certo senso riallacciarsi all’impegno morale delle sue opere più riuscite, ma non ci riescono perché non sono poi approfonditi con la necessaria oggettività, e sopratutto perché si tende a debordare prioritariamente verso altre direzioni ben più evidenti, che finiscono per ingarbugliare ulteriormente la matassa). Ed ecco infatti allora che si parla di psicoanalisi (in una maniera abbastanza spicciola e scontata mi sembra), di incesto, persino del mito della santità, e anche (ahinoi!!!) del diavolo(!!) poiché e lui, naturalmente – o così dovrebbe essere – il “grande tentatore” del titolo (e che poi sorrida davvero non è proprio una certezza, potete scommetterci): “Papa Paolo ha ragione” dice a un certo punto la superiora: “mi dimentico troppo spesso che il diavolo esiste ed è scaltro” e credo che questa battuta della sceneggiatura sia sufficiente a fornire “chiaramente” il polso della situazione, anche se il trattamento della materia non è ovviamente di stampo medioevale (ci mancherebbe altro!!) e ci propone una incarnazione di Belzebù aggiornata ai tempi, che qui dovrebbe essere rappresentata da un giovane scrittore squattrinato che va a vivere nel convento religioso per aiutare un vescovo polacco ex collaborazionista, a buttar giù la propria difesa. Non ci vengono però chiaramente spiegate le ragioni che spingono l’uomo ad accettare un incarico di siffatta natura, al di là forse di quelle relative alle difficoltà economiche in cui versa, ma sta di fatto che proprio con l’arrivo del nuovo venuto (l’intruso, il corpo estraneo) l’organizzazione dell’istituto religioso sembra sfasciarsi: la sua presenza mette dunque in pericolo ogni cosa, provocando crisi di vocazione, fughe e dimissioni a catena… Ma i peccatori ed i peccati sono trasversali (qui non ci sono “buoni e cattivi” secondo le regole della convenzione), e le loro magagne si riveleranno, diventano palesi, in inquietanti confessioni collettive organizzate proprio dalla superiora in un contesto fortemente ritualizzato, assumono la dimensione di una specie di lebbra contaminante che sembra corrodere ogni cosa, fino a quando la volitiva monaca non riuscirà di nuovo a ripristinare l’ordine stabilito (oltre che a ridefinire lo scontro e le contrapposizioni).
Claustrofobicamente kafkiano nell’assunto (alla fine, la situazione si capovolgerà persino, facendo diventare vittima colui che sembrava essere il carnefice), è un film fin troppo denso di motivi non sempre adeguatamente penetrati, né tantomeno controllati, che si intersecano e straripano in un eccessivo susseguirsi di finali che non giovano certamente alla omogeneità del risultato. Evidentemente l’intento era quello di seguire strade poco battute dal cinema nostrano, ma l’esito non è davvero molto incoraggiante, vola basso, quasi rasoterra nonostante le altissime ambizioni e la stimolazione emozionale dell’inconscio di un “irriverente” e fortemente creativo accompagnamento musicale per coro e percussioni di Ennio Morricone, un po’ pletorico, ma suggestivo come solo la musica da lui composta sa essere, capace da solo di creare una atmosfera “patologica” e malata.
Belle anche le angoscianti scenografie di Umberto Turco.
Il cast degli attori è stellare: la protagonista è la sempre straordinaria Glenda Jackson, questa volta forse alle prese con un personaggio troppo di maniera però (quello della superiora) che lei sorregge come può, ma che non riesce ad elevare al rango dell’eccellenza, nonostante gli sforzi sovrumani che fa per tenerlo in piedi. Accanto a lei, Claudio Cassinelli (bravissimo), qui al suo esordio sul grande schermo (poi prematuramente scomparso qualche anno dopo a seguito do in incidente mortale) e una intensa Lisa Harrow, oltre ai più manierati (e conosciuti) Francisco Rabal, Adolfo Celi, Arnoldo Foà, Gabriele Lavia, Duilio Del Prete ed Ely Gallerani.
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