Regia di Kristina Lindström, Kristian Petri vedi scheda film
Chi ama il gran racconto di T. Mann La morte a Venezia (1912) e ha amato anche la versione cinematografica di Visconti (1971), significativamente diversa nel titolo, non può che incuriosirsi per il docu-film uscito (in poche sale) nel nostro paese – solo in v.o.s – su Björn Andrésen, interprete di Tadzio nella pellicola viscontiana.
“È molto delicato, non ha salute, – pensò Aschenbach. – Probabilmente non diventerà vecchio”. (T. Mann: La morte a Venezia. Nuovi Coralli Einaudi – 1971, pag. 50)
50 anni dopo la prima mondiale di Morte a Venezia, Kristina Lindström e Kristian Petri, i due registi svedesi che hanno presentato questo documentario fuori concorso al festival di Pesaro (con cui è stata chiusa la rassegna del 2021) forse non avevano immaginato, almeno così credo, di raccontare un uomo così profondamente diverso dall’immagine che, attraverso il personaggio di Tadzio, l’allora quindicenne Björn Andrésen aveva offerto di sé, quando, con i suoi riccioli color miele e i suoi occhi grigio-crepuscolari, aveva incarnato l’efebo per Luchino Visconti, ispirato al breve romanzo di Thomas Mann.
Oggi, Björn ha 66 anni ed è un uomo vecchio; per noi, che ne conserviamo il ricordo, è un uomo irriconoscibile. I lineamenti del bel volto d’allora – ora solcato da profonde rughe – si sono appesantiti e sembrano riflettere una vita tormentata e difficile, sebbene attraversata dalla fama ottenuta col film che lo aveva portato a farsene promotore in giro per il mondo occidentale, nonché durante un lungo soggiorno in Giappone.
Evocando con sincerità, per i registi-intervistatori, la propria infanzia e l’adolescenza privo dei genitori, affidato alle cure di una nonna tanto affettuosa, quanto ambiziosa, Björn stenta a ricomporre in modo unitario la propria storia personale e ci offre il quadro di un’esistenza turbata, incerta, lungo la quale molti disturbi relazionali, già emersi prima della lavorazione del film, si aggravarono vieppiù, determinando il suo destino di uomo solitario, disinteressato alla deriva della propria vita, fino a ridursi alla condizione del barbone delle prime impressionanti immagini.
Alternando al racconto di Bjorn immagini e fotografie del suo passato (e, per fortuna, spezzoni di pellicola dal film di Visconti, e della troupe e degli attori che con lui condividevano il set) i registi ci stimolano a rileggere Thomas Mann, a rivedere un grande film – e non è davvero poco – ma non sempre riescono a chiarire i contorni del loro progetto, lasciandoci con la triste impressione dell’addio alla vita di un adolescente che saluta il sole al tramonto (l’immagine indimenticabile del film di Visconti) ma che sente dentro di sé la paura di vivere e un cupo desiderio di morire.
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