Regia di Jessica Beshir vedi scheda film
MUBI
La regista naturalizzata messicana, ma di origine etiope, Jessica Beshirth, torna nella propria patria africana e decide di girarvi il suo lungometraggio d’esordio, incentrato su un mutamento di costumi e soprattutto di attività economica, che ha finito per condizionare non poco i destini di una popolazione già piuttosto succube di una condizione economica decisamente precaria, come appare in generale la società etiope degli ultimi decenni.
Il lavoro della regista, durato diversi anni, cerca di ricostruire la sensazione di straniamento che l’ha colta quando è rientrata nella sua città natale di Harar, notando come cambiamenti non solo morfologici, geografici, ma anche economici e sociali, abbiano stravolto in pochi anni quel suo luogo di ricordi d’infanzia sereni e nostalgici.
La carenza d’acqua ha prosciugato il lago delle escursioni che l’autrice compiva da bambina; la carestia poi ha indotto gli abitanti a sostituire le piantagioni di caffè con la coltura di un arbusto resistente ai climi ostili, conosciuto come “khat”, pianta dagli effetti eccitanti e allucinogeni che viene utilizzata per loschi traffici di stupefacenti. E masticata anche dagli stessi coltivatori come espediente per cercare conforto da una deriva che non è purtroppo solo economica, ma anche sociale, morale, e di intenti.
Un gesto già descritto nella omonima canzone di De André ("Mastica e sputa"), ma qui con un’ accezione più desolante e corrotta dal vizio.
Ci troviamo dinanzi a una ricerca di soluzioni che possano allietare condizioni di vita senza prospettive, o fornire motivazioni necessarie per tirare avanti da parte di un ceto sociale oppresso.
Un viaggio alternativo e tutto mentale a quella fuga in mezzo al Mediterraneo che costa sacrifici economici e rischi di sopravvivenza altissimi, che trova nella coltivazione di questa pianta, anche poco gradevole alla vista, quella soluzione apparentemente più facile per farsi andar bene una vita che non fornisce alternative di miglioramento.
La regista, che filma in modo elegante e ricercato, catturando la purezza delle inquadrature e scegliendo una fotografia in bianco e nero davvero seducente, struttura il suo racconto alternando testimonianze a ricostruzioni legate al ricordo di quando era bambina e tutto sembrava bello e possibile.
Ne scaturisce un film visivamente assai seducente, che tuttavia non sminuisce la drammaticità della sua denuncia di fondo. Rivolta a cercare la soluzione a un atteggiamento che coinvolge un’intera classe sociale già svantaggiata economicamente, ormai ripiegata a trovare effimero coinvolgimento in palliativi pericolosi e nocivi al fisico, quanto alla mente.
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