Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Nella dimora di campagna di Sandringham nella contea di Norfolk la famiglia reale inglese si riunisce per trascorrere le vacanze di Natale. La principessa Diana (Kristen Steward) è in ritardo essendosi persa con la sua auto nel bel mezzo della campagna inglese. Le casse del cibo arrivano prima di lei, pronte ad essere disposte in cucina sotto il controllo attento del capo cuoco Derren (Sean Harris). Ma forse è solo un pretesto questo ritardo, gli attriti di Diana con il principe Carlo (Jack Farthing) sono noti, così come le difficoltà a vivere serenamente le “normali” incombenze della vita di corte. Per controllare le sue esuberanze, la regina madre (Stella Gonet) si è affidata all’occhio vigile di Gregory (Timothy Spall), un ex soldato della corona che ora le fa da maggiordomo che ha il compito specifico di controllare che i fotografi siano a debita distanza dalla grande casa. Diana non vive bene lo stretto contatto con la famiglia reale e non sopporta di vivere in una "prigione dorata". Solo con i figli William (Jack Nielsen) e Harry (Freddie Spry) riesce a stare bene. E con Maggie (Sally Hawkins), la guardarobiera che si prende cura di vestire il suo bel corpo, l’unica che la capisce veramente e con la quale riesce a parlare in piena libertà.
“Spencer” di Pablo Larrain è un film dall'eleganza algida che si mette tutto il tempo a pedinare il passo di Diana Spencer per tratteggiare le forme concrete del male di vivere. Un aspetto questo che emerge secondo tutti gli standard fenomenologici del caso nonostante che l’oggetto di indagine sia la moglie del successore designato al trono d’Inghilterra.
Il film si apre con un campo lungo che, nel mentre ci mostra una colonna di camion dell’esercito, taglia a fette l’atmosfera brumosa della campagna inglese. Il convoglio militare arriva a destinazione e i soldati incolonnati si accingono a trasportare delle casse all’interno dell’immensa dimora. La macchina da presa ci fa entrare dentro la grande cucina, poi insiste sulle casse adagiate a terra e ci fa scoprire che in esse non ci sono armi o altri congegni militari ma il cibo che servirà per il pasto di Natale della famiglia reale. Poi uno stacco ci porta al cospetto di Diana alla guida della sua decappottabile, che per tutto il tempo che ci impiega per arrivare alla tenuta di Sandringham ha un atteggiamento che assomma preoccupazione panica per essere in oltraggioso ritardo rispetto alla previsione di arrivo e contentezza trattenuta per essere si persa alla guida della sua auto. In pratica, nei primi minuti del film Pablo Larrain ci chiarisce tutti i connotati formali della messinscena che faranno da palcoscenico all’insistito pedinamento di una donna che intende abiurare dal suo ruolo regale per rimanere semplicemente una Spencer. Un palcoscenico che vive dell’esplicito contrasto tra l’ostentata marzialità di un mondo che suole sottomettere ogni minuto al rigoroso rispetto dell'etichetta e la sofferta ribellione di Diana che cerca di non rimanerne prigioniera. Detto altrimenti, lungo tutto il film Diana si comporta come risucchiata continuamente in un imbuto nonostante cerchi di usare ogni pretesto utile per potersene allontanare.
È la terza volta che Pablo Larrain si cimenta con un falso biopic, ovvero, con la descrizione di personaggi i quali, se da un lato aderiscono alla gravità delle rispettive condizioni esistenziali, dall'altro lato sono inseriti in una narrazione filmica che non si preoccupa affatto di seguire una rigorosa traccia filologica. È successo già con “Neruda” e con “Jackie”, e tutti e tre i film hanno in comune anche il fatto di essere circoscritti in un arco di tempo ed intorno a fatti ben delimitati. Per il grande poeta è la messa in clandestinità per la sua militanza comunista ad opera della dittatura. Per la first Lady, invece, la gestione complicata dei giorni successivi l’assassinio di John Kennedy. Per Diana Spencer, infine, la convivenza forzata con i rigidi rituali della famiglia reale durante i giorni di Natale. Del resto, assonanze “poetiche” ci sono anche con altri film di Pablo Larrain. Infatti, nonostante si sia lontani (da un punto di vista cinematografico dico soprattutto) dagli effetti cancrenosi prodotti in Cile dalla dittatura di Pinochet, aspetto questo che ha caratterizzato tutta la filmografia dell’autore cileno almeno fino a “Neruda” (il suo capolavoro a mio avviso), siamo pur sempre indotti a riflettere su un potere suscettibile di castrare sul nascere la libertà in quanto tale. Un potere che opprime non in ragione di un suo esercizio dispotico ma in virtù di una regale autorità che subordina ogni slancio identitario e vitalistico e al rigido rispetto dei valori di casta. Diana Spencer e la vittima di tutto questo e se la narrazione filmica è indirizzata nel suo svilupparsi dalle "tipiche" falsificazioni cinematografiche è la cronaca di ciò che sappiamo essere capitato a “Lady Diana” a dirci quanta verità si possa effettivamente ricavare dalle pur abusate iperboli narrative.
Diana vive male il fatto di sentirsi tollerata per quello che rappresenta piuttosto che essere accettata per quello che semplicemente è. Le incombenze da principessa “felice per contratto” gli hanno progressivamente corroso l'identità originale ed è arrivato ad un punto dove preferisce difendere la libertà di essere donna e madre piuttosto che fare la comparsa nella recita di Corte. Vorrebbe fuggire, fosse solo per riannodare i fili con le radici familiari e farsi avvolgere e coinvolgere dai suoi fantasmi interiori. È sempre triste la Diana di Larrain, è sempre lontana dalla contentezza cui avrebbe diritto, che sembra sempre riuscire a vivere per pochi attimi appena (come dimostra il bel finale). Ma cos'è una vita che ti costringe a chiudere le tende di casa ? Questo sembra sempre chiedersi il suo sguardo perso alla ricerche di risposte plausibili. Ecco, avrebbe bisogno di “amore, shock e risate” come gli dice Maggie.
Un aspetto che mi è piaciuto del film, e che credo valga la pena essere messo in risalto, è il modo in cui i tre personaggi di Derren, Gregory e Maggie interagiscono con Diana. Oltre al fatto (ovvio direi) che tutti insieme fanno risaltare aspetti del carattere di Diana che ne qualificano ulteriormente la natura malinconica, ho come l'impressione che ognuno di loro giochi ad esercitare un ruolo complementare rispetto alla natura alienante della sua personalità. Derren, il capo cuoco della Regina, rappresenta “quel vorrei ma non posso” continuamente incarnato da Diana. La discrezione che ci mette nell’andare incontro alle preferenze culinarie di Diana dimostrano che, nel mentre non fa fatica a comprenderla sotto l'aspeto umano, non può esimersi dall’essere il reggitore supremo del sacro rito della tavola reale. Gregory è quello che la mette di fronte ai doveri del presente in relazione al peso che il passato dei reali d’Inghilterra hanno ricevuto dalla storia. È il guardiano di una tradizione che ha scelto di difendere ad ogni costo. E per questo fine, ha modo di agire sottilmente per mettere Diana in linea di continuità con i fantasmi della sua tradizione familiare (il riferimento dichiarato è Anna Bolena, uccisa dal Re consorte Enrico VIII perché accusare di tradimento). Un modo per ricordargli che il suo ruolo ha delle responsabilità che possono anche essere simulate bene. Maggie è quella che si rende completamente complice dell’emotività compromessa di Diana. Con lei la principessa parla come nessuno nella casa. Ne confida la voglia di libertà, il desiderio di essere capita nonostante tutto. E Maggie si rende disponibile all’ascolto senza condizione. Le veste non solo il corpo ma anche l’anima, e ama il suo desiderio di ribellione perché anche lei desidererebbe avere il coraggio di sfidare i giganti. Insomma, ho trovato felice la gestione registica di questi attori le cui presenze sono da ritenersi “secondarie” solo per lo spazio e il tempo che occupano all’interno del film, non certo per il peso specifico che rivestono nell’economia della narrazione
Diana Spencer è resa bene dalla brava Kristen Steward, la cui prova l'attrice è assorbita come conviene dall'eleganza che veste ogni aspetto della messinscena. Pablo Larrain adotta una regia molto presente, con delle carrellate molto insistite (soprattutto quelle a seguire lungo gli eleganti corridoi della grande casa) e con dei primi piani emotivamente appropriati intorno alla figura di Diana. L’utilizzo del sonoro è a tratti lisergico, come a voler contrappuntare la presenza disturbata e disturbante della principessa. Infine la fotografia, intimamente legata al clima che l’avvolge e che contribuisce a produrre, capace di donare sapienza visiva all’elegia della campagna e alla tristezza degli occhi.
Buon film quindi, con Pablo Larrain che si conferma un autore di spessore anche quando si muove lungo percorsi solo apparentemente lontani di quelli che hanno caratterizzato il suo fulminante esordio.
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