Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Su Lady D. è stato detto tutto e di tutto. Sono stati scritti libri, girati documentari, serie tv, sono state imbastite le teorie più assurde eppure Pablo Larrain è riuscito a scovare un momento particolare che, almeno secondo lui, meritava un risalto maggiore a tal punto da decidere di farne un film. Dopotutto quel weekend di Natale del ’91 quando Diana prende atto che è arrivato il momento di porre fine al suo matrimonio, nessuno si era preso la briga di narrarlo, quella farsa coniugale, tenuta su per puro spirito di sacrificio, con un flebile velo d’amore che ancora sembrava muovere la donna verso il marito fedifrago e disinnamorato da sempre, cercando in lui quella comprensione mai percepita, è giunta al capolinea eppure qualcosa non torna.
Larrain ci mostra una donna fragile, malinconica e triste, pesantemente forgiata dalla vita regale, priva di libertà semplici, come aprire una tenda o indossare l’abito che vuole, provata dall’anoressia, che tenta di divincolarsi dalla realtà in cui sopravvive a tentoni, come una mosca intrappolata in una ragnatela, e la trasforma poi in una donna determinata e capace di ribaltare il suo destino avverso in soli tre giorni, anzi per meglio dire, in una notte premonitrice in cui il doloroso ritorno al passato la riporta al presente da mutare.
Per tutto il tempo gli occhi sono puntati su Diana, sulla sua sofferenza nell’essere Lady D., sull’odio verso gli usi e costumi che hanno invaso la sua vita, in modo così dettagliato, da sembrare maniacale. Larrain accenna solo leggermente agli altri personaggi, quasi per dovere di cronaca, e tutta la durata della pellicola è un frenetico rincorrere Diana e le sue paure, dipingendo l’ennesimo ritratto di una donna fragile soggiogata dai giochi di potere.
La massiva sceneggiatura poggia quindi pienamente sulle fragili spalle di Kristen Stewart che funziona d intermittenza: in alcune scene è ineccepibile, in altre insopportabile, quando ad esempio esalta alcuni vezzi, ormai noti di Diana, il modo in cui muove la testa o piuttosto gli occhi, quell’accenno di sorriso, che finiscono per rendere il personaggio più caricaturale di quanto dovrebbe essere.
L’uso della fotografia, i toni cupi e sfocati che governano l’intero film, le scene all’interno del palazzo e negli esterni, creano un contrasto netto con i colori vivaci che avvolgono Diana nei rari momenti in cui prevale la sua libertà (quando è insieme ai figli, quando guida in auto da sola) che si concentrano molto sul finale che parte dinamico, eccessivamente, e termina statico, eccessivamente.
Dello sguardo in camera finale, di cui ormai si abusa, si poteva tranquillamente fare a meno.
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