Regia di Julia Ducournau vedi scheda film
Tentativo più ambizioso, gridato e fragile rispetto al passato da parte della regista francese di Raw, che perde in ingenua freschezza e visione, rimanendo intrappolata in estetiche e meccaniche che hanno fatto la fortuna di registi come Cronenberg e Tsukamoto.
É una donna, o un essere metà umano e metà macchina a suggerire con violenza che Julia Ducournau, regista del film osannato a Cannes, non ama le etichette ma sopratutto le identità di genere. Le sue sono donne guerriere bramose di non essere catalogate, non vogliono essere oggetto sessuale, ma cercano un amore puro, paterno in questo caso. Probabilmente cercano quello incarnato da un uomo dalla figura possente quanto fragile e borderline, interpretato da un eccellente Vincent Lindon; un ruolo tagliato su misura, una figura che ricorda Keitel del Cattivo tenente di Abel Ferrara.
Questo grido disperato viene rappresentato da una figura psicopatica bramosa di titanio, metallo innestato come placca craniale in seguito ad un incidente automobilistico, ma che rappresenta la purezza, del metallo che non si corrode, che non si corrompe.
La protagonista è una donna che non teme di cambiare i propri connotati, di appiattire le sue curve, di turbare con un ballo ambiguo e seduttore un gruppo di soldati, il branco, di corrompere la virilità.
Se nel precedente Raw, la regista pur con qualche debolezza aveva ottenuto un giusto equilibrio tra un’estetica accattivante e una complicità tra gli attori più riuscita, Titane resta un film ambizioso ma vecchio allo stesso tempo, che puzza di déjà vu, che tenta di ammaliare con una estetica tutta francese di eccessi, di uccisioni violente, che vorrebbe sventolare una bandiera di libertà culturale, ma che tradisce un macchinoso tentativo, a volte goffo e non del tutto riuscito.
Manca il mestiere di Cronenberg, manca la poetica di Tsukamoto.
Palma d’oro politica.
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