Che il cinema francese stia messo meglio del nostro si sa, e in effetti ci vuol poco ad essere più vibrante di qualcosa di immobile e sempre maledettamente uguale a se stesso (salvo qualche eccezione, s’intende). In ogni caso, oggi realizzare in Italia un film come Titane sarebbe semplicemente impensabile. Purtroppo.
Perché Titane è bellissimo, folle, scandaloso, deviato, punk (anzi post-punk), camp, sexy, profondamente toccante e disturbante. Qualcuno potrebbe anche trovarlo ridicolo, perché Titane non ha paura di essere anche questo: non teme il pubblico, anzi gioca ironicamente con le sue attese. Un po’ horror un po’ storia d’amore, il film racconta la progressiva umanizzazione di una creatura disumana in seguito a un evento... inusuale.
L’inizio è folgorante. La giovane protagonista percorre, in piano sequenza, gli ambienti bui di un autosalone: è illuminata dai neon e dai fari delle auto esposte, ha uno spillone tra i capelli, un giubbotto di pelle arabescato e una placca di titanio appiccicata in testa, che sembra quasi una conchiglia o un pezzo di cervello spuntato fuori dal cranio. La osserviamo mentre, davanti a un pubblico in deliquio, si lascia andare a una danza sfrenata di fianco e sopra una Cadillac fiammeggiante (non è una Plymouth Fury, non si chiama Christine e probabilmente, anzi sicuramente, è un’automobile maschio). Alexia è una ragazza-immagine, che cerca calore e appagamento tra le lamiere fredde di vetture immobili: in seconda battuta capiamo, infatti, che strusciarsi sopra i cofani delle macchine non è per lei solo una questione di lavoro, ma un vero e proprio feticismo. E non è l’unica perversione da cui è affetta.
Se è vero che la storia di una donna interessata sessualmente alle automobili potrebbe, di primo acchito, offrirci un ragionevole motivo per interrompere la visione del film, è anche vero che la pellicola di Julia Ducournau (che, ricordiamolo, ha vinto la Palma d’oro a Cannes; mica pizze) si trasforma progressivamente in una riflessione non banale sull’identità, sulla consapevolezza di sé e del proprio corpo, sul significato profondo dell’essere padri, madri e figli (andando molto al di là della rassicurante concezione che la società ha di questi ruoli). In Titane nulla è rassicurante. Neppure la musica, che è centrale e utilizzata in modo straniante: si uccide sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, ci si aggroviglia su She’s Not There degli Zombies, si balla al ralenti sulla new-wave dei Future Islands, ci si trasfigura sulla celebre Wayfaring Stranger, ballata tradizionale americana qui magistralmente interpretata da Lisa Abbott.
Intanto la protagonista cambia, muta, evolve. Crea vita, dentro e fuori di lei. Espelle olio motore dal corpo, perde brandelli di sé e scopre cosa vuol dire amare ed essere amata. Indipendentemente dalle forme e dalle convenzioni. Non un film per tutti, sicuramente una provocazione agli occhi e ai sensi dello spettatore, un’opera che non lascia indenni dopo la visione. Ma non è proprio questo il bello del cinema?
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