Regia di Fritz Lang vedi scheda film
La forza di Metropolis sta tutta nella straordinaria carica emotiva delle sue immagini. Metropolis è cinema nella sua forma più pura, è l'immagine stessa della forza creatrice che il cinema incarna, e porta in sé – oggi come allora, e forse più che mai – tutta l'evocatività e la suggestione di cui la settima arte sia mai stata capace.
Diciamolo subito, e con tutto l'amore sviscerato che ogni cinefilo non può non nutrire per questo film geniale: la trama è una solenne baggianata, e Lang se ne rendeva perfettamente conto. L'idea che il conflitto tra capitale (simboleggiato da Joh Fredersen, oligarca di Metropolis) e lavoro (il capo della sala macchine Grot) possa essere risolto con una pacca sulla schiena e una stretta di mano, alé op!, attraverso la mediazione del cuore (Freder, figlio di Fredersen), colpisce per faciloneria ed è a distanza siderale dalle riflessioni sul tema che pure imperversavano in quegli anni.
Ma che importa? La riflessione politica serve solo a dare un'impalcatura narrativa al film, a riproporre in chiave futuristica la contrapposizione tra gli eterni archetipi del bene e del male, della luce e delle tenebre, del vero e del falso, anziché descrivere elementi concreti come appunto il capitale e il lavoro. La forza di Metropolis sta tutta nella straordinaria carica emotiva delle sue immagini. Metropolis è cinema nella sua forma più pura, è l'immagine stessa della forza creatrice che il cinema incarna, e porta in sé – oggi come allora, e forse più che mai – tutta l'evocatività e la suggestione di cui la settima arte sia mai stata capace.
Anche Metropolis, come tante altre fantasticherie sul futuro, nasce dalla rielaborazione di un'immagine reale: la skyline notturna di Manhattan osservata dalla nave che nel 1924 portava Fritz Lang in America per la prima dei Nibelunghi. "Immergevo lo sguardo nelle strade – le luci abbaglianti e gli alti edifici – e fu allora che immaginai Metropolis", confessò più tardi al collega Peter Bogdanovich (P. Bogdanovich, Fritz Lang in America, p. 15). Quello che non disse era che New York esercitava su di lui un effetto ambivalente, e che l'attrazione e la fascinazione per lo splendore e l'energia della città si accompagnavano a un vibrante senso di angoscia per i suoi lati più segreti e bui. La città "era il crocevia di forze umane molteplici e confuse" in lotta "per sfruttarsi reciprocamente e vivere così in un costante stato d'ansia" (Frederick W. Otts, The Films of Fritz Lang, p. 27). La città simbolo della modernità, con i suoi grattacieli, le monorotaie e gli aeroplani, presentava un contraltare nascosto e inquietante, un sottobosco umano dove l'esistenza si identificava con la sopravvivenza. Il lato oscuro della forza vitale di New York diventa, trasfigurato, lo strato sotterraneo di Metropolis.
Nella visione avveniristica veicolata da Metropolis ogni luce ha la sua ombra. Le possibilità spettacolari offerte dalla scienza e dalla cibernetica, rappresentate dalla meticolosa quanto – secondo Kracauer – inutile descrizione del laboratorio di Rotwang nell'episodio della creazione dalla donna-robot, sono negate dai loro stessi effetti disastrosi. L'automa, inconsapevole e servile, si trasforma in un essere che sfrutta subdolamente e in piena coscienza il suo appeal sessuale per distruggere l'umanità di cui nel frattempo è diventato antagonista.
Solo quella stretta di mano finale sembrerebbe portatrice di un messaggio di speranza e capace, finalmente, di convertire l'incubo in sogno. Ma la speranza è illusoria e, nonostante il carattere messianico che alcuni hanno voluto ravvisare in Maria e Freder, il finale è amaro. Joh Fredersen riesce, con una sola fava, a prendere più piccioni: sottrae il figlio dalle sue rêveries di paladino del proletariato straccione e lo riporta nella sua sfera d'influenza, sopisce la rivolta dei dannati degli inferi senza fare nessuna concessione sulle loro condizioni di vita e di lavoro, e in generale torna a imporre un controllo di stampo più paternalistico sui lavoratori attraverso il nuovo patto con il capo operaio, che implicitamente diventa suo complice e sodale. Tutto continuerà come prima, forse peggio di prima. E neanche il robot-Maria muore del tutto. La sua figura statuaria, tornata alle sembianze di un automa, resta indifferente e come altezzosa tra le fiamme che la circondano. Il suo destino, ignoto, è l'emblema di un finale che forse non poteva che rimanere aperto. Come fatalmente aperto è il nostro futuro.
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