Regia di Fritz Lang vedi scheda film
Un film come Metropolis non potrebbe più essere girato al giorno d’oggi. La tecnica cinematografica degli anni venti è infatti perfettamente funzionale al ritmo meccanico e all’estetica allucinata di questa pellicola: i movimenti a scatti, l’opacità della scala di grigi, l’effetto straniante dello sfumato e l’aspetto surreale degli scenari d’antan sono le componenti ideali per ritrarre un mondo di pupazzi in cartapesta, di maschere grottesche ugualmente divise tra sfruttatori e sfruttati, tra oppressori e oppressi. La visionarietà del film è la caricatura di un sogno avveniristico, che si traduce in un incubo disumanizzato. è l’utopia borghese del progresso che volge al ridicolo, è l’iperbolica illusione del benessere e del potere che fa da lente deformante, come nei dipinti di Georg Grosz e Otto Dix. La macchina è il modello onnipresente di una furia (ri)produttiva, che procede per cicli sempre uguali, per alimentare la circolazione del potere. La vita stessa è ripetizione, anziché evoluzione e, nella mente dell’inventore Rotwang, nemmeno la morte può essere un processo irreversibile. Come un ingranaggio può continuare a girare in eterno, così un uomo-robot è un essere potenzialmente immortale; la scienza e la tecnologia superano la natura macinando miracoli. I pensieri sono ridotti a circuiti elettrici, i gesti a giochi di pesi e contrappesi: quello immaginato da Fritz Lang è difatti un universo stilizzato, però attraversato da una mostruosa tensione. Le architetture sono esagerazioni prospettiche, le folle sono animali dalle cento teste, i macchinari mastodontici divoratori di energia. In mezzo a questa armonia forzata, la vera umanità è un ricordo antico e polveroso, un disordine preistorico ormai relegato nelle catacombe. Sotto la faraonica sterilità delle sovrastrutture, è nella viscere della terra che sopravvive l’anima, quel cuore che è il mediatore tra la testa e le mani. Al regolare flusso del carburante e del vapore risponde, dal profondo, il selvaggio ribollire del sangue, della passione incontrollabile e dell’istinto ribelle. La congiura d’amore e rivoluzione che cova nel sottosuolo è come il moto magmatico che precede un’eruzione. E, come nel preludio di un’Apocalisse, è lì che inizia la lotta tra l’angelo (Maria) e il demone (Rotwang), tra la promessa della vita eterna (nel sole di una nuova era di libertà) e la minaccia dell’eterna morte (nelle tenebre della schiavitù tecnologica). Questa è la contrapposizione tra teologia ed alchimia di faustiana memoria, in cui si manifesta il biblico dissidio tra bene e male, tra fede e idolatria, in mezzo a tentazioni, visioni e profezie, in un cosmo metropolitano diviso tra paradiso (i Giardini Eterni) e inferno (il quartiere di Yoshiwara). Il popolo sofferente, che inizialmente aspetta l’arrivo del Messia (il Mediatore), si lascia infine sedurre da una falsa Maria, l’incarnazione della falsa religione, che sostituisce alla speranza l’impazienza, all’attesa la smania, alla pace la guerra. In questa storia la Rivelazione è una presa di coscienza improvvisata ed un passaggio all’azione impulsivo, un confuso miscuglio di spinta ideale e desiderio immanente. D’altronde questo epilogo ambivalente è in perfetta linea con lo spirito dadaista che anima l’intera opera: la rivolta finale mostra come il rinnovamento scaturisca da un’indomabile esplosione di nonsenso, che crea e distrugge a caso, con una perfidia iconoclasta dagli effetti imprevedibili, e quindi certamente originali e probabilmente fecondi.
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