Regia di Wolfgang F. Henschel vedi scheda film
In tempi di grande dibattito sulle nostrane ‘macerie artistiche’, da L’Aquila a Pompei, passando per Marte&Venere di Palazzo Chigi (non tralasciando i catafalchi che abitano il palazzo), un film che scava tra le macerie e la Memoria della Storia. Una storia fatta di storie private. Centellinate, microscopicamente individuate e diagnosticate una ad una, attraverso precisissime geometrie visive ed emotive, dal regista cileno Pablo Larrein, già molto apprezzato per il bellissimo Tony Manero (2008). Praticamente, il vero vincitore dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Post Mortem intreccia la vita privata e sociale, quella di Mario, che vive la solitudine ed una sorta di apparente indifferenza alle cose della vita, che sembrano occultarlo (la sua auto verrà inghiottita durante un corteo), nonostante il contatto con la morte ce l’abbia quotidianamente, lavorando in un obitorio, dove compila referti. E l’amore per la ballerina Nancy, sua vicina di casa. Ad essere ammazzate, non sono soltanto le persone, ma la democrazia cilena, a causa di un golpe militare, quello del ’73, che provocò la morte di una nazione, montagna di morti, accatastati, tra cui Allende. Tutt’intorno un roboante silenzio, quello dei morti e dei vivi, cui fa eccezione il grido-denuncia di una dottoressa. Nel frattempo, la condizione autistica della vita: Mario che scrive dettagliatamente le relazioni delle autopsie dei medici legali sui cadaveri, che crescono quotidianamente di numero, si fa cattolico, ogni volta che ha qualcosa da chiedere a Dio. Riconosce in Nancy la rivelazione della sua stessa condizione di solitudine, capacitandosi solo della sua inettitudine a vivere. Anche il sesso per lui sarà una moneta di scambio qualsiasi.
Larraìn lavora per ellissione temporale, non potendo tralasciare la potenza delle immagini, nient’affatto misteriosa, per esempio, quella dell’autopsia di Allende. Prende posizione e, attraverso Mario, rifiuta di certificare, non potendo discolparsi di colpe che appartengono ad un intero popolo. Si tratta di un cinema fortemente ancorato alla metafora e all’evocazione, che guarda al passato per ripensarlo e ripassarlo sotto la ‘lente’ illuminata/illuminante della Storia, che non è scritta solo dai sempre riconoscibili personaggi che la fanno, ma è affollata di gente comune che ce la ricordano. Turba l’inquietudine, la crudeltà e lo smarrimento epocale che ne derivano, tutti racchiusi nel lungo piano sequenza finale. Descrizione somma della disumanità di quel (e se vogliamo, del nostro) periodo.
Alfredo Castro, dà anima a Mario, ed è strepitoso nell’interpretare la condizione di un sentimento marmoreo, infranto solo dalla dolcezza di una ballerina. Castro somatizza l’intorno, la paura e l’orrore, dandogli un volto. A ciò si aggiunge la rigorosissima regia, che non cede o concede nulla, ostinandosi a mostrare il mutismo, di contro al passo danzante. Icone del silenzio, alla maniera di ciò che desta quel carrello carico di corpi, trainato faticosamente nei sotterranei dell’obitorio. Indimenticabile. Cadenzato rigor mortis. “Una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento”. Parole pronunciate da Salvador Allende, a Radio Magallanes, l’11 settembre 1973.
Giancarlo Visitilli
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