Regia di Clint Bentley vedi scheda film
Equitazione ragionata e doma del fantino.
Anche i cavallerizzi piangono.
“Invecchiando inizi a renderti conto che tu e il tuo corpo non siete più la stessa cosa.”
E lei gli asciuga una lacrima.
Possono essere tutte quelle ossa spezzate e ricomposte solo per poi essere fratturate di nuovo, in un ciclo continuo di ricalcificazione. Può essere la spina dorsale che reclama infine riposo dopo che per una vita intera la schiena che la contiene è stata messa sotto sollecito sforzo continuo. Oppure può essere qualcosa di più subdolamente non correlato alla vita di fantino, ma che geneticamnete in un caso su 10.000 pesca tra la popolazione d’ogni età…
E può essere l’arrivo inaspettato di un figlio già bello che cresciuto, lontano, nascosto nell’ombra insolitamente lunga per un cavaliere di quel tipo, non da guerra, ma da corsa, in attesa di farsi avanti e reclamare appartenenza di sangue ideale, anche se non prettamente genetica.
A 10 anni esatti dall’aver dato tanto il benvenuto quanto l’addio alla magnifica “Luck”, la serie HBO di David Milch e Michael Mann con Dustin Hoffman e Nick Nolte che gira(va) intorno all’ambiente delle corse ippiche (tipo “Febbre da Cavallo” ma diretto da John Huston e sceneggiato da John Milius), ecco che questo “Jockey” (“Fantino”), probabilmente un “piccolo” film della vita per Clifton Collins Jr (“Traffic”, “Babel”, “Brothers”, “WestWorld”, “the Mule”, “Once Upon a Time in… HollyWood”, “After Yang”, “Nightmare Alley”), matrilineare nipote d’arte cinematografica (Pedro Gonzalez Gonzalez, il Carlos Robante del “Rio Bravo” di Howard Hawks), e l’opera prima nella regìa per Clint Bentley, sceneggiata con Greg Kwedar e da entrambi prodotta con Nancy Schafer (il quartetto aveva già lavorato in squadra per la realizzazione dell’altrettanto valido “Transpecos”, un “neo-western di pattuglia”, con ruoli parzialmente invertiti: copione sempre scritto a 4 mani, diretto però in quell’occasione da Kwedar, anch’egli in quella circostanza al suo debutto dietro la MdP, e con Collins tra i protagonisti), ne raccoglie con robusta intelligenza e sincera passione l’eredità.
Completano il cast, in due ruoli principali, Molly Parker (“the Five Senses”, “DeadWood - la Serie”, “SwingTown”, “House of Cards”, “1922”, “Lost in Space”, “Madeline’s Madeline”, “DeadWood - il Film”, “Pieces of a Woman”) e Moisés Arias (“the Kings of Summer”, “Monos”, “the King of Staten Island”).
Fotografia di Adolpho Veloso, che gioca senza strafare con le luci Rosy-Fingered Dawn/Sunset malickiane. Montaggio, lineare (ambio, più che trotto o galoppo), di Parker Laramie. Musiche, ottime, di Aaron e Bryce Dessner (anch’essi da “Transpecos”). Distribuisce Sony Pictures Classics.
All the other jockeys who lost are hopping off their mounts post-race. They’re walking past Jackson and the horses swirl behind him as he looks around.
Then another horse is brought around.
The winner.
Gabriel.
Up on the horse like they were made for each other.
Ruth runs up congratulating Gabriel, congratulating Dido. None of them notice Jackson.
Jackson watches as Gabriel is led on the horse to the winner’s circle.
Then he turns and walks toward the jocks’ room and we hang on his face. A myriad of emotions washes across him. Relief. Pride in the young man. Joy for Ruth.
The struggle is over. He no longer needs to pretend.
He starts to limp heavy as he approaches the jocks’ room now.
Nothing to hide.
He disappears into the jocks' room, into a collection of silks of all colors.
E così termina la sceneggiatura, ma non è proprio così che il film finisce (il cosa è il medesimo: è il come che cambia un po’), perché, utilizzando ancora lo stesso dispositivo adoperato per la prima galoppata, vincente, in groppa a Dido’s Lament (tra Marlowe e Purcell) e messo in campo anche per una seconda galoppata, perdente, in groppa a Hello Sunshine, battuto proprio gareggiando contro Dido (mentre un altro “trucco” adottato tanto per sopperire agli eventuali incidenti equini mortali che portarono alla chiusura avvenuta a riprese della seconda stagione in corso della suddetta “Luck” quanto per mascherare i limiti del budget è quello, messo in scena due volte, di raccontare una gara affidando la narrazione alla simbiosi fra la telecronaca diffusa dagli schermi e dagli altoparlanti dell’ippodromo che la mostrano e commentano e lo sguardo dello spettatore che sta assistendo alla sfida grazie ad essi), con la MdP posta in simbiosi sincronizzata col centauro per mezzo di un carrello motore (tanto in falso movimento quanto ingannevolmente fermo a restituirne la cinetica), vale a dire ad altezza garrese del cavallo e inquadrando il fantino attraverso una sorta di piano americano realizzato con una focale media, lo sguardo del regista segue il protagonista - sconfitto e felice - camminare zoppicando al chiar di luna, mentre cala la sera, lungo il recinto interno ad anello della pista, sulle note della “Felicity” di Hologramme, il progetto musicale del compositore e produttore canadese Clément Leduc (a tal proposito occorre menzionare un altro bel momento, questa volta danzereccio, di ritmo, melodia e armonia: in controluce attorno a un falò con le note e la voce di Dylan LeBlanc in “I’m Moving On”).
La solita, vecchia storia, ma raccontata dannatamente bene.
Un film serenamente crepuscolare, dall’elegiaco passus duriusculus.
See You Later, Alligator!
* * * ¾ - * * * * ¼
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