Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
L’arte del Terzo Reich è un retorico kitsch d’autore: è bellezza assurta ad ideale geometrico e simbolico, celebrativo di un glorioso passato che rimanda profeticamente ad un fulgido avvenire. La sua dignità monumentale è fondata su un’essenzialità perfetta e sinistra, avvolta nell’aura soffusa di un romanticismo riservato a pochi. Il suo stile ricercato e rarefatto riproduce il vuoto dell’elitarismo del potere, che sconforta e rende fragili: il Führer, lontano dal suo pubblico, si riduce ad un essere paranoico e ipocondriaco, un cadavere, come lo definisce Eva Braun. La dittatura è un’autorità nuda, che non potendo vestirsi del consenso del popolo, né scaldarsi del suo amore, si perde in un solipsismo scambiato per una forma estrema di libertà individuale. La logorrea di Adolf Hitler e le goffe evoluzioni ginniche della sua compagna sembrano le trasposizioni recitative di un’autoreferenzialità praticata come un vacuo e meccanico esercizio di seduzione – rispettivamente maschile e femminile – rivolto ad un altro inesistente. La loro fortezza, austera, spoglia ed isolata, è un teatro esclusivo ed appartato in cui essi interpretano, per un ristretto gruppo di fedelissimi, una vecchia parte ormai diventata inguardabile. Il sogno di grandezza ha perso il senso della misura, ed è diventato un delirio, a tratti decadente in una stanca poesia. L’atmosfera crepuscolare che circonderà l’imperatore Hirohito ne Il Sole, in questa storia è superata da un livido alone di morte, inglobato in architetture classiciste che, con la loro innaturale rigidità, simulano l’assurda volontà di sopravvivere e continuare, nonostante tutto, ad inseguire la vittoria. Nella mente del Führer, la realtà è un bene andato perduto, mentre il regno del possibile è diventato sterminato, tanto da poter accogliere ogni divagazione fantastica eletta a teoria scientifica. Lo sfacelo abbatte ogni steccato, spianando persino le acuminate punte dell’odio, e riducendo tutto ad una insulsa speculazione. Così persino lo spirito del Mein Kampf, da rigorosa ideologia che era, risulta qui degradato al rango di elucubrazione personale folle e consolatoria, che esalta il simile e disprezza il diverso solo per trovare una giustificazione al proprio essere ormai sconfitto. Quello ritratto da Sokurov in questo film è il mito stinto che in privato cerca maldestramente di rifarsi il trucco: è come una vecchia signora che si mette in ghingheri davanti allo specchio giocando a nascondere i suoi anni. Ma intanto tutto è finito, anche la tempesta della battaglia decisiva, i cui echi da tempo ormai si sono spenti. E le parole gettate a casaccio contro il vento sfidano, donchisciottescamente, il sovrano silenzio delle certezze, che non sono più minimamente in grado di scalfire.
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