Regia di Scott Hicks vedi scheda film
Alla sua seconda prova registica Scott Hicks dimostra un certo coraggio misto ad incoscienza. Da australiano, dopo il trionfo di "Shine" (7 mominations all'Oscar e gli elogi di tutta la stampa americana) sarebbe stato molto più logico e facile realizzare un film che esaltasse i valori e gli ideali americani più puri. Invece "La neve cade sui cedri" tratto dal romanzo di David Guterson, affronta un tema ostico, spinoso e rimosso: quello dell'internamento nei campi di prigionia dell'intera comunità giapponese residente negli Usa. Naturale che il film, nonostante fosse uno dei titoli di punta della Universal, che sperava di avere tra le mani il classico prodotto da Oscar, sia stato accolto quantomeno con..gelo dalla stampa americana ed ignorato dal grande pubblico. Peccato, perché dopo il faticoso e pesante "Benvenuti in paradiso" di Alan Parker, incentrato sul medesimo tema, il film di Hicks, nonostante una struttura narrativa a volte prolissa e eccessivamente descrittiva, basata su un uso forse troppo insistito del flashback (ma anche il romanzo di Guterson non è di lettura agevole e scorrevole) si sforza di dare una visione credibile e autentica di una delle pagine più nere della recente storia americana, poco conosciuta, amara e certo non gloriosa, per questo facilmente dimenticata dagli stessi americani. Coadiuvato in fase di sceneggiatura dal premio Oscar per "Rain Man" Ron Bass, Hicks, particolarmente sensibile al tema dei conflitti razziali (di madre scozzese, di padre inglese nato a Burma, nonché nipote di un inglese nato nelle Indie Occidentali, il regista ha vissuto a Nairobi in Kenya prima di trasferirsi in Australia), con un ritmo volutamente lento, solenne, riflessivo, forse a volte enfatico, mai soporifero, come hanno scritto i detrattori, e con una sicura padronanza della messinscena (non è facile gestire un film costruito esclusivamente sui flashback, inevitabile una certa macchinosità e pesantezza dell'intreccio, reso a volte faticoso anche da alcune parentesi forse non indispensabili come quelle belliche), racconta su due binari paralleli, tra passato e presente, memorie e nostalgie, pubblico e privato, due vicende lontane nel tempo ma profondamente ed intimamente legate. Da un lato l'infanzia di Ishmael e Hatsue: le corse sulla spiaggia, le prime sensazioni di due adolescenti che scoprono l'amore e si trovano a vivere una passione tenera, delicata, ma anche segreta perché proibita. "Sposa uno della tua razza, uno che ha il cuore forte e gentile: sta lontana dai ragazzi bianchi" raccomanda ad Hatsue la madre, impegnata ad insegnarle ad essere giapponese (dalla danza alla calligrafia, dall'acconciatura al sapere stare sedute senza muoversi, tutto ciò che "fa parte della grazia"). E mentre Hatsue vive profondamente condizionata dalla madre, Ishmael vive con difficoltà il rapporto con il padre (sempre particolare l'attenzione del regista verso la figura paterna: in "Shine" il protagonista era assillato da un padre ossessivo e isterico, nel successivo "Cuori in Atlantide" il piccolo protagonista, privo del papà, lo sostituisce con un uomo dotato di strani poteri paranormali, a cui comunica tutto il suo affetto e la sua esigenza di una presenza maschile forte che gli faccia da guida e sostegno). Il papà di Ishmael invece (un convincente Sam Shepard) è il proprietario del giornale locale: uomo di grande equità e compassione verso tutti i popoli, incarna lo spirito della giustizia e della tolleranza, "parteggia per i musi gialli" a rischio della sopravvivenza del suo giornale (molti ritireranno i loro contributi o non rinnoveranno gli abbonamenti) e "i musi gialli" gli renderanno onore al suo funerale e riversa sul figlio ogni aspettativa ("riuscirò a fare di te un giornalista"). Per Ishmael, autentico pesce fuor d'acqua in un mondo che non comprende e non accetta (e forte è l'immagine di un pesciolino che si dibatte inutilmente fuori dal suo habitat naturale) è difficile seguire un tale esempio e modello ("Non sono affatto identico a mio padre: molti pensano che non valga nemmeno la metà", urla alla madre che cerca di fargli capire che in fondo "Non è cosa tanto terribile essere figlio di tuo padre"). La dolce, fragile e impossibile storia d'amore tra i due giovani vissuta tra gli alberi di cedro, luogo prediletto per i loro incontri (e proprio nel cavo di un cedro faranno l'amore per la prima volta) conquista ed emoziona ed è resa palpitante anche dai due bravi protagonisti Ethan Hawke, dotato di uno stile crepuscolare sinceramente raro negli attori della nuova leva e la romantica Youki Kudoh, "la principessa delle fragole, il sacrificio di una vergine sull'altare dell'egemonia razziale", tormentata dallo scontro tra le sue passioni ed il ruolo delle tradizioni ("Io non voglio essere giapponese" grida in uno sfogo di rabbia e disperazione). Dall'altro lato il processo a Miyamoto, pretesto opportuno e vibrante per rievocare un momento storico drammatico (e notevole è la sequenza della deportazione dei nippo-americani con tutti gli abitanti dell'isola che, in silenzio, stanno a guardare). Miyamoto diventa un capro espiatorio, identificato con un intero popolo: contro di lui la collettività bianca sfoga gli istinti nazionalisti ed idioti culminanti in sentimenti non ancora sopiti di razzismo, rancori e vendetta. Nonostante il giudice Fielding (un pacato ed efficace James Cromwell) nel ricordare che la ricorrenza del nono anniversario di Pearl Harbor non dovrà avere alcuna rilevanza ai fini del processo, raccomandi che bisogna "condannare un uomo per ciò che ha fatto, non per ciò che è", l'accusa, avvalorando la tesi di Hatsue secondo la quale "i processi non si fanno per la verità: l'ingiustizia è insita nelle cose", alimenta ad arte il pregiudizio nei confronti di Miyamoto ("Non c'è bisogno di prove contro chi ha bombardato Pearl Harbor: guardatelo in faccia, in lui c'è il nemico"). E l'uomo, giustamente, non riesce più a fidarsi degli americani. Più che dalla ricerca della verità (la soluzione finale è ciò che interessa meno al regista che, evidentemente, non ha voluto realizzare né un giallo né tanto meno un legal thriller, il vero capo d'accusa non è un omicidio quanto un intero comportamento sociale), il processo è dunque alimentato dal persistere di questi contrasti, dai sospetti, dalla ricerca di vendette personali. E proprio sulla necessità di armonizzare l'incontro tra culture diverse fa perno il discorso dell'anziano e saggio avvocato difensore (grande Max Von Sidow, ironico, acuto, paterno, con la battuta sempre pronta), che richiama ideali più alti di civiltà e convivenza. Ormai quasi incapace di camminare, con un occhio fuori uso, parla nella consapevolezza che la sua vita si sta avviando alla conclusione e riflette sui fatti alla luce della morte, si sente "un viaggiatore disceso da Marte, sconcertato da ciò che vede: la solita umana fragilità, trasmessa di generazione in generazione, vittima dei consueti pregiudizi e paure irrazionali ed incapace di capire i propri simili". Forse un discorso troppo retorico e semplicistico, comunque efficace ed appassionante. Le tematiche del razzismo e del pregiudizio sono affrontate con coerenza e limpidità, disseminate con estrema intelligenza in tutte le molteplici tracce narrative (anche nell'amicizia tra Miyamoto e Carl, inseparabili fino all'adolescenza, "pescavate insieme, eravate amici", dice a Carl sua moglie ed egli risponde "Eravamo ragazzini: i giapponesi chi li capisce"), sottolineando anche, ad esempio nell'episodio della vendita degli acri di terreno, quanto spesso nei rapporti tra i due popoli non si trattasse di "semplice illegalità, ma di torto, che è ben altra faccenda". La regia ardita di Hicks che predilige uno stile visionario, destrutturando la narrazione con insistiti salti temporali e avvolgendo la storia con un alone di mistero tramite una distribuzione assai convincente di ellissi, si espone al rischio di inevitabili tautologie che inficiano a tratti la fluidità narrativa, ma "La neve cade sui cedri" resta un esempio valido ed elegante, anche se forse anche un po’ accademico, patinato e didascalico, di film ricco di stimoli su temi attuali e importanti (il razzismo, l'identità, la verità, gli amori giovanili, l'odio) capace di sottolineare l'importanza del perdono e della compassione come elementi indispensabili per una pacifica, sana e costruttiva convivenza. Non a caso sarà proprio Ishmael, seguendo il consiglio della madre di "non fidarsi troppo dei fatti, non bastano da soli" e soprattutto sforzandosi di superare il rancore e la rabbia determinati dall'abbandono improvviso e, ai suoi occhi, ingiustificato di Hatsue, a scoprire la definitiva soluzione del caso. E un abbraccio finale sotto la neve tra i due ragazzi suggellerà la ritrovata serenità.
Voto: 6/7
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