Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film
Capolavoro di un maestro giapponese che inchiodava la cinepresa a un metro da terra e non la ruotava mai. E' una profonda e delicata riflessione sull'ingratitudine dei figli verso i genitori, e sul loro irriducibile egoismo (impersonato con più evidenza dalla figlia più vecchia dopo il funerale). Il tema e la problematica vengono costruiti per piccoli accenni successivi, così come i personaggi vengono definiti con precisione con minuscoli tratti che possono sfuggire ad un osservatore distratto. La malattia della madre, ad es., non è abbastanza per mettere da parte tutte le altre preoccupazioni, e neppure per rinunciare a interessarsi a un gatto (fuori campo) nel giardino di casa. Sin dall'inizio del film, a poco a poco si compone il quadro di figli egoisti e distratti, ai quali importa poco dei genitori, che sono per loro solo un impiastro da cui liberarsi il prima possibile; comunque, però – si noti – salvando la faccia e una coscienza grassa e scaltra. Neppure la morte della madre riesce a scuotere veramente il loro egoismo. Un personaggio bellissimo, tuttavia, è la ex nuora, che finisce per essere affezionata agli ex suoceri e ad essergli d'aiuto assai più degli stessi figli. Constatato l'amaro quadro familiare, il regista cerca di consolarsi (vedasi il dialogo tra la ex nuora e la figlia più giovane) dicendosi che l'indifferenza dei figli fa parte del normale corso delle cose. Probabilmente lui stesso però non ne era convinto, perché la vedova stessa è un esempio vivente di persona altruista e pronta al sacrificio che difficilmente sarebbe cambiata in futuro. E la figlia più giovane si ribella anch'essa ad una logica tutt'altro che stringente. La verità è che i figli diventano così quando li si vizia, e non perché ciò sia il corso naturale e inevitabile della vita. Il finale è uno tipico per Ozu: l'uomo vedovo che resta a casa solo. Farei fatica a pensare a questo elemento come non autobiografico.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta