Regia di Lana Wachowski vedi scheda film
Ciclicamente e con modalità differenti, la Storia riporta in auge il nostro innato vizio di rileggerla, aggiornandola in relazione ai tempi che stiamo attraversando, tendendo a ripetere gli errori (certe cose non le vogliamo proprio comprendere, giammai!), mentre per i pregi dimostriamo – spesso e drammaticamente – di avere la memoria assai più ballerina.
Questa predisposizione riguarda direttamente anche il cinema, soprattutto quello di matrice industriale e quindi maistream, che riverbera se stesso, riproponendo i suoi cavalli vincenti con un’ostinazione soffocante che, in taluni casi, sfocia in una forma di pressing capace di proseguire sine die, fino al raggiungimento del risultato.
Nel caso specifico dell’universo di Matrix, sono ormai trascorsi quasi ventidue anni dal leggendario capostipite (ai tempi, fu il mio primo dvd, acquistato per 44.900 lire) e circa diciotto dal duetto costituito dai capitoli Reloaded e Revolutions, che furono girati in contemporanea. Nel frattempo, tanta acqua è passata sotto i ponti e questa nuova incursione corre il concreto pericolo di risultare fuori tempo massimo per svariati motivi, di non rappresentare quella resurrezione che capeggia a caratteri cubitali nel titolo.
Durante una missione, Bugs (Jessica Henwick – Love and monsters, On the rocks) s’imbatte in un ringiovanito Morpheus (Yahya Abdul-Mateen II - Candyman), insieme al quale si mette sulle tracce di Thomas Anderson (Keanu Reeves – John Wick, Point break), invischiato in un’operazione commerciale che non gli conferisce alcun tipo di entusiasmo.
Di lì a breve, Thomas accetterà di seguire Bugs, di riaprire gli occhi nella speranza di riabbracciare Tiffany (Carrie-Anne Moss – Memento, Unthinkable), pronto a sfidare quello che nella sua vita di tutti i giorni era semplicemente il suo analista (Neil Patrick Harris – How i met your mother, I puffi) e che ora ricopre le vesti di un agguerrito nemico, il principale ostacolo che lo separa dall’obiettivo.
Vedere Matrix resurrections è un po’ come leggere un libro mentre sei sulle montagne russe. È tutto fuorché inerte, già per la sua anomala composizione da sequel che svaria in lungo e in largo (il revival e il reboot affiorano tra le linee), è ricolmo di stimoli che aggiornano con incessante costanza il menù del momento ma è anche del tutto disomogeneo, sia per le singole caratteristiche che si danno il cambio, sia per la qualità delle medesime, che detonano sprigionando discrasie ustionanti.
Così, la prima parte, con un’invitante gabbia calata dall’alto, è intrigante, insaporita da una latente polemica verso il sistema che governa le scelte, tra destino e libero arbitrio, e direttamente intrecciata con il passato della saga mediante molteplici anelli di congiunzione, mentre la fasi successive accusano un contraccolpo dietro l’altro, un po’ per una frustrante mancanza di coesione, evidenziata dagli inconsulti sbalzi tra fasi logorroiche ad altre più movimentate, tuttavia situate a distanze siderali dallo smalto dei giorni migliori, un po’ per l’annichilente attuazione di una prassi consolidata (mentre le quotazioni dell’uomo sono in picchiata, la donna prende il timone in mano per salvare la baracca), una tendenza umanissima e sostenibile ma anche allineata, un rovesciamento delle parti che sposa un cambiamento condiviso con fin troppi soggetti.
Detto di una complessiva mancanza di senso della misura, di un taglio in protratta conversione e di una dilatazione incomprensibile, non si può imputare a Lana Wachowski di aver giocato tra le comode mura di casa, con azioni di rimessa amministrate giovandosi della poderosa difesa che l’iconografia alle sue spalle le avrebbe facilmente assicurato. Infatti, si mette letteralmente a nudo, aprendo varchi tra le regole aperte del suo – virtualmente sterminato - ecosistema, con un effetto sorpresa del tutto diverso da quello che fu (nel 1999, fu un turbinio di fulmini a ciel sereno, dal mix tra azione e pensiero, la tecnica del bullet time, una visione esponenzialmente schiacciante del ruolo occupato dall’uomo nella catena evolutiva, il suo rapporto con le macchine), forse controproducente, con ogni probabilità controverso. Seguendo questo filo conduttore, Keanu Reeves deve prima di tutto reggere un dramma psicologico ed esprimere la necessità di colmare un vuoto, mentre la parte del leone, più precisamente della leonessa, è ad appannaggio di Carrie-Anne Moss. Loro due, quando sono uno accanto all’altra, sono meravigliosi, esposti senza rinnegarne l’età che tante volte viene camuffata, mentre le altre new entry lasciano inappagati, con Neil Patrick Harris penalizzato da una configurazione marginalizzata (il villain andrebbe coccolato come gli eori) e Jonathan Groff (Mindhunter) sconfitto in partenza nell’impossibile raffronto con il predecessore (il ghigno diabolico di Hugo Weaving manca come l’ossigeno durante un’immersione).
Facendo un rapido consuntivo, Matrix resurrections lascerà con l’amaro in bocca buona parte di coloro che lo attendevano a braccia aperte, quantunque possegga un temperamento tutto fuorché rinunciatario. Intrattiene un fruttifero dialogo interno ma lo doma solo in parte, associa idee (l’immaginario incrocia Cloud Atlas e acquisisce risorse da Sense8) ma accosta spazi talmente contrastanti da scatenare spossatezza, utilizza l’effetto nostalgia in maniera personale senza piegarsi alla routine (scelta coraggiosa e ammirevole), evidenziando varie anime e più piani di lettura, target differenti e capsule del tempo, tra congiunzioni e separazioni, riflessi e bug, ricalchi e variazioni, origini e rigenerazioni, volontà e costrizioni.
Aggrovigliato e scoperto, franco e debilitato, tanto traboccante di input quanto dispersivo.
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