Regia di Tony Richardson vedi scheda film
Tony Richardson è stato indubitabilmente uno dei nomi di punta (e certamente fra quelli più significativi e pregnanti) della corrente inglese del “free cinema” che a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 del secolo appena trascorso, portò una ventata di aria fresca e innovativa nell’asfittico panorama della cinematografia inglese e non solo. Fin dal suo esordio, si impose con prepotenza all’attenzione della critica con “I giovani arrabbiati” (meglio l’originale “Look back in anger”) tratto dal testo teatrale di John Osborne, altro esponente culturale fuori dagli schemi (il riferimento a una fonte letteraria sarà una costante di gran parte dell’opera di questo regista), una pellicola però che in Italia ebbe una tiepidissima accoglienza, a causa anche di una distribuzione incerta e frammentaria (uscita programmata in sordina in una delle torride estati di quegli anni, quando il cinema era incontestabilmente in vacanza) e per questo solo scarsamente recepita dai distratti spettatori dell’epoca, nonostante l’importante cast che annoverava nomi del calibro di Richard Burton, Mary Ure, Claire Bloom, Edith Evans, Donald Pleasance e Gary Raymond. Ma il titolo che lo impose con prepotenza all’attenzione internazionale (prima ancora dello splendido “Gioventù, amore e rabbia”, altro titolo “arruffato” per definire più commercialmente l’originale, che suonava invece, molto meno pomposamente, come “La solitudine del corridore campestre” da Sillitoe, e della consacrazione definitiva avvenuta con i numerosi e meritatissimi riconoscimenti al suo “Tom Jones”, godibile, scanzonata e politicizzata rilettura critica da Fielding), è certamente “Sapore di miele” (Cannes 1962), ancora un delicato affresco su una condizione e qualche ingombrante tabù, che trae spunto da una commedia di Shelagh Delaney (pubblicata in Italia da Sansoni) che curò anche la sceneggiatura per l’adattamento cinematografico. Molta acqua è passata sotto i ponti nel frattempo, e forse rivisto oggi il film può sembrare leggermente datato, legato allo spirito e alle convenzioni del tempo (persino un tantino “ingenuo”), ma così non era assolutamente al momento della sua uscita, in quanto i temi trattati, ancora poco “discussi” e sopportati dalla società del perbenismo, rimanevano di scottante attualità. Va ascritto quindi alle capacità del regista il merito di aver saputo rappresentare con pudica tenerezza questa storia di solitudini, pregiudizi ed emarginazioni, senza dimenticare l’unghiata della denuncia nell’evidenziare sotto una apparente normalizzazione tutt’altro che gridata, le discriminazioni, le preclusioni e le chiusure di un mondo ancora soffocato da uno strisciante moralismo difficile da cancellare o semplicemente da “addolcire”. Lo sguardo di Richardson è insolito e pungente, così come per tutta l’opera del periodo inglese, capace di fustigare con intensa cattiveria critica (persino con irriverenza) ma con un encomiabile senso della misura, una modalità di rappresentazione che solo l’America e le sue ferree leggi di mercato sarebbe riuscita ad annacquare e rendere innocua, se si eccettua il graffiante affresco de “Il caro estinto” fino a diluire progressivamente le indubbie qualità di un talento verso il più vieto qualunquismo, spesso rasentato spesso rasentato – salvo sempre più rari sprazzi di ingegno che ogni tanto si potevano ancora avvertire. Ma torniamo al titolo in questione, una descrizione umana e dolorosa di rapporti e incomprensioni che è anche occasione di riflessione per specchiarsi in un’epoca e un costume che, visto l’andamento attuale delle cose, è tutt’altro che preistoria, considerando che le modalità discriminati “striscianti” e analoghe nel riproporsi immutate e disturbanti, tornano di prepotenza a riaffiorare anche qui da noi in Italia, identicamente conflittuali e tali da condizionare oltre che il privato, persino il pubblico, politica compresa. Alcune pressioni “oscurantiste” dell’epoca che tendevano a vedere il male ogni volta che si andava invece verso la civiltà dell’armonia dei rapporti, francamente risultano risibili considerate oggi, ma rimangono elemento fondamentale per valutare la portata di rottura dei temi che attraversano l’opera, un film che ebbe l’indubbio merito, al di là di ogni altra considerazione, di richiamare l’attenzione su una condizione “dannata” (quella omosessuale) con un occhio fortemente normalizzante, insolito e controcorrente in un periodo in cui la tematica della diversità sessuale veniva considerata “deviazione perversa” e anche nel cinema veniva quasi sempre affrontata in modo da presentarla a fosche tinte, se non proprio come la rappresentazione, almeno come la conseguenza del “male”. La storia, ambientata in una Inghilterra provinciale e problematica, racconta di Jo, una ragazza diciannovenne che vive in una squallida abitazione di periferia con la madre Helen, ed ha con lei un rapporto teso e conflittuale, quasi di succube sudditanza, dal quale tenta inutilmente di affrancarsi. Bella e ancor giovane, la madre si disinteressa della figlia, passando da un’avventura all’altra e non esita ad abbandonarla del tutto per passare a nuove nozze. Rimasta sola, Jo conosce un marinaio di colore, se ne innamora e, dopo la sua partenza, si accorge di essere rimasta in cinta di quell’uomo da poco conosciuto e che non avrà alcun modo di rincontrare ancora. Per fuggire la solitudine, accetterà allora di vivere insieme a Geoffrey, un giovane e sensibile omosessuale, che la sua evidente condizione di “diverso” ridicolizza ed emargina, a sua volta assetato di affetto che troverà a sua volta nella ragazza il giusto spazio per riversare il suo affetto e il suo bisogno di rapporti umani di interscambio. Possiamo dire che a modo suo la ama e la rispetta, anche se in un modo casto e insolito (o forse semplicemente la considera un essere umano, come sempre dovrebbe essere). Si forma così una amicizia intensa in una atmosfera serena e compartecipata che Jo non aveva mai conosciuto. Ma quando il bambino sta per nascere – e sarà di pelle scura – ricompare Helen abbandonata dal nuovo marito ,che si impone nuovamente alla figlia e allontana bruscamente Geoffrey che non può “accettare” per la sua evidente disomologazione sessuale, distruggendo così la tranquillità che insieme i due avevano faticosamente raggiunto. Madre e figlia torneranno così ad essere amaramente sole, come all’inizio della storia, con in più il fardello della nuova “diversità”, questa volta relativa al colore della pelle del nascituro, da difendere. Ottima l’accoglienza a Cannes, dove il film fu salutato da generali consensi, e dette notorietà ai due straordinari protagonisti, più duratura per la simpatica ma “bruttina” interprete femminile (Rita Tushingan) che per un certo periodo – per la verità non lunghissimo – sembrò assurgere al ruolo di icona (dividendo lo scettro con la più fortunata Julie Christie) di quella corrente (la ritroviamo persino – sia pure in un ruolo più marginale – nel colosso di Lean tratto da Pasternak “Il Dotto Zivago) per degradare poi lentamente verso le anonime e insipienti produzioni incolori anche nostrane (compreso un film con Montesano). Decisamente più effimera (oggettivamente il fuoco di un silo momento) la fama di Murray Melvin (entrambi premiati con la palma per la migliore interpretazione) poi inesorabilmente relegato, anche a causa delle sue particolari caratteristiche fisiche, on ruoli di spalla, generalmente melliflui, ambigui e infidi di scarsa rappresentatività. Accanto a loro gli altrettanto ottimi Dora Bryan, laida e ciarliera madre snaturata quanto egoista e incapace di comprendere e di amare, e Robert Stephens quale nuovo e “interessato” marito della donna. Particolarmente interessante la colonna sonora di John Addison. Un film insomma che meriterebbe di essere rivisitato con più attenzione e frequenza di quanto in effetti sta accadendo (e non solo negli ultimi tempi). A mio avviso si tratta infatti di un meritevole esempio di cinema civilmente impegnato che dovrebbe trovare spazi di programmazione più consistenti e continuativi invece di affastellarsi nell’anonimo gruppo delle pellicole di valore ma che stanno invece subendo un incomprensibile e prolungato “oblio della memoria” .
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