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Foto di famiglia

Regia di Ryota Nakano vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Foto di famiglia

di yume
8 stelle

locandina

Foto di famiglia (2020): locandina

Ryôta Nakano, classe 1973, pochi lungometraggi e un apprendistato come assistente alla regia e regista in televisione, con Foto di famiglia, incentrato come A Long Goodbye sul tema della famiglia, ha ottenuto gran successo di pubblico in Giappone, totalizzando più di un milione di spettatori.

A parte 8 candidature e un premio al Japanese Academy, il film è stato premiato al Warsaw, ha vinto un premio al Nippon Connection e il suo primo lungometraggio, Capturing Dad (2012), è stato selezionato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Generation.

Una carriera di tutto rispetto, dunque, per un regista della generazione di fine millennio, e tale da lasciar correre su alcune critiche riduttive che vedono qualche rigidità nel trattamento dei personaggi e una certa familiarità d’impianto col mezzo televisivo.

Nakano, fatto salvo il gap generazionale che ne segna la distanza ma ne fa anche il degno rappresentante di una new wave che fa tesoro della tradizione classica, si muove nel solco di quel grande cinema che fin dai tempi del muto ha dato a quello del Sol Levante la sua impronta inconfondibile.

Certi momenti del Kurosawa più intimista, e soprattutto la lezione di Ozu, riecheggiano in Foto di famiglia, per non parlare del cinema di Kore-e-da e Naomi Kavase. Altro si potrebbe trovare, a ben cercare, ma conta soprattutto sottolineare quanto sia presente nel suo cinema quel modo tutto giapponese di rappresentare il mondo secondo i propri canoni senza restare ancorati a confini territoriali e culturali.

Chi guarda, da Oriente a Occidente, s’identifica, si commuove, s’indigna, nulla manca alla gamma dei sentimenti, anche se qui prevale una vena divertita nell’ osservare la realtà, come dire “nulla potrà mai impedirmi di sorridere”, fosse anche uno tsunami, un terremoto forza otto o la morte di un caro.

Torna, in Nakano, quel modo minimalista di porsi di fronte a realtà complesse, quel “labirinto della semplicità” che fece grandi i film di Ozu.

 

scena

Foto di famiglia (2020): scena

Masashi è il più giovane della famiglia Asada, il preferito dal padre che gli regala la sua amata Nikon e segnerà così il destino del figlio.

E’ una storia vera che ha tutta l’aria di una favola, magari a sfondo morale, ma della favola ha gli ingredienti base.

Masashi cresce e sembra non voglia far niente della sua vita che non sia guardare il mare.

Poi arriva il colpo di scena, quell’imprevisto che nella vita è indispensabile perché non si affoghi nella monotonia. Masashi diventa un fotografo di fama internazionale, rimane però quel ragazzotto svagato che è sempre stato, sembra che la vita gli scivoli addosso.

Un po’ come nelle foto, quando chi scatta dice “sorridi”, e uno sorride anche se in quel momento non ne ha nessun motivo.

La vita e la sua fissazione nella fotografia è il tema centrale di un cinema che riflette su sé stesso, su cosa significhi essere reali ed essere rappresentati.

Dubbio pirandelliano a cui mette fine lo spaventoso tsunami che nel 2011 devastò il nord del Paese.

Masashi prende coscienza e non riesce più a far foto, o meglio, la fotografia resta al centro della sua vita, ma per quello che rappresenta autenticamente: il ricordo, la possibilità di rivivere il passato, tornare a quei cari perduti per sempre, pensare alla propria vita come una costruzione fatta di tanti tasselli, uno sull’altro, uomini e donne lontani nel tempo, spazi visti e vissuti una volta e ora invisibili, tracce dove un tempo c’era una casa e ora un mucchio di rovine.

L'incapacità di assumersi responsabilità aveva segnato gli anni giovanili di Masashi, ma nessun risvolto drammatico, aveva una famiglia che lo amava, gli permetteva di vivere la sua vita con quella gentile capacità tutta giapponese di rispetto dell’altro. Era l’epoca dei ritratti di famiglia, composizioni ibride e divertenti tra realtà e finzione, c’era in quelle buffe composizioni ciò che ognuno dei membri della famiglia avrebbe voluto essere: un pompiere il padre, la donna del boss malavitoso la madre, un pilota di formula uno il fratello.

scena

Foto di famiglia (2020): scena

La fama e il successo di Masashi sono venuti da lì, la sua crescita di uomo dalla tragedia di Fukushima.

E’ cinismo quello di chi impugna una fotocamera per ritrarre una tragedia? E’anaffettività creare un quadro fotografico in cui si prefigura perfino la morte del padre? Definizioni forse troppo dure, Robert Capa ricorse a tanto per fotografare il miliziano morente nella guerra di Spagna, la fotografia conosce l’arbitrio che si concede a tutte le arti, e mentre sembra esorcizzare il reale ne svela le pieghe più nascoste.

E a proposito di contrasti improvvisi di cui il cinema giapponese è maestro (ricordiamo anche la vena sulfurea di Kitano che dietro i sonori bum bum bum della yakuza colora di fiori stupendi i suoi quadri) come non pensare al vecchio Watanaba che muore dondolandosi sull’altalena in una notte di neve in Vivere di Kurosawa? O ai monelli di Ozu in Sono nato, ma…

Ozu traeva il suo umorismo dalla vita quotidiana – afferma Richie – e i suoi film non puntavano sulle capacità di un attore ma sull’inconscia comicità delle persone normali, colte, senza che se ne rendessero conto, dalla macchina da presa”.

Si ritrova il sorriso guardando questo film, sulle tragedie tanti hanno detto e scritto pagine meravigliose, ma per superare il vuoto della perdita la fotografia è il lenitivo più efficace. Masashi lo sa e l’archivio di ottantamila foto recuperate dopo il disastro che ha creato in anni di ricerche ha portato un po’ di luce a tanta gente.

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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