Asada Masashi ([Masashi Asada (young)] – Kazunari Ninomiya) era amato e coccolato da tutti i suoi famigliari, come spesso accade quando un bambino, che non vorrebbe crescere perché sta bene così, diventa il cucciolo viziato della casa.
Il fratello Yukihiro ([Tsubasa Nakagawa young] – Satoshi Tsumabuki), che, con voce fuori campo, ne racconta la storia, parla anche delle piccole e grandi tensioni che, nel corso degli anni, la condizione di privilegio del piccolo furbacchione aveva provocato in lui, che si era adattato invece alle più o meno grandi fatiche della vita.
Masashi, però, non voleva integrarsi: non accettava la logica del successo e del denaro alla base dell’impetuoso sviluppo giapponese e, da quando il padre Akira (Mitsuru Hirata) gli aveva regalato una macchina fotografica (era il suo nono compleanno), si era convinto che da grande sarebbe diventato fotografo.
Tanto per cominciare, Masashi ce l’aveva messa tutta per regalare ai suoi cari l’album di famiglia dei sogni irrealizzabili: sia Akira – mancato pompiere; sia la madre Junko (Jun Fubuki) – mancata moglie di un gangster di Yakuza; sia Yukihiro – mancato pilota di auto da corsa – avevano ammirato e lodato le belle immagini che – almeno sulla carta – avevano reso possibili le aspirazioni impossibili di ciascuno, mentre la bella vicina Wakana(Haru Kuroki), innamorata di lui e aspirante modella fotografica, si era profondamente commossa vedendosi ritratta nel suo bellissimo abito rosso.
Diventato adulto, i propri successi personali – grandi o piccoli – non ne mutavano l’estraneità al mondo omologato degli altri: il denaro non interessava proprio Masashi; era molto soddisfatto di regalare momenti di gioia, con i suoi servizi fotografici, a chi lo chiamava per essere immortalato da lui nello stesso modo speciale e poetico. Questo gli dava fama, ma non soldi: le sue performances offrivano a tutti il ritratto veritiero, di quello che avrebbero voluto essere – o diventare – nella vita. La bella Watasha, del resto, diventata modella, gli aveva offerto l’ospitalità necessaria a non pesare sulla famiglia e, dopo il matrimonio, lo aveva dispensato da ogni risarcimento economico per il passato, per il presente e per il futuro.
L’11 marzo 2011 un terremoto imprevedibile aveva sconvolto l’Est del Giappone e i suoi abitanti, ponendo fine alla vita di molte persone, delle loro famiglie, distruggendo le loro case, pur costruite secondo i più sofisticati sistemi antisismici e coinvolgendo persino la centrale nucleare di Fukushima.
La vita di Masashi ne fu coinvolta indirettamente: il fotografo di successo e senza soldi sentì il dovere di recarsi in quei luoghi nei quali si adoperò mettendo a frutto la sua esperienza professionale e riuscendo, infatti, a riportare in vita le vecchie fotografie ritrovate sotto le macerie, ciò che consentì ai superstiti di cercare i propri cari dispersi, nonché, quando possibile, di unificare qualche famiglia.
La sua passione per le foto si era “estesa” , dunque, ai documenti fotografici, ovvero alla verità umana dei volti, degli oggetti e degli ambienti che le fotografie ripulite rendevano possibile, ignorando la fantasia e le emozioni (vuote?) che prima avevano guidato la sua affermazione individuale.
Anche in questo caso, la riconoscenza dei sopravvissuti ripagava largamente il suo lavoro e il suo sacrificio da volontario.
Lontano da tutti, riusciva in qualche modo a mantenere i contatti con il mondo dei suoi cari usando il cellulare: erano cambiati i tempi; l’ansia della famiglia e della sua Wakana poteva essere placata anche con poche parole.
Qualcuno lo avrebbe raggiunto…
Il mio racconto degli sviluppi della vicenda si ferma qui.
Ho evitato di parlare delle prime scene e delle ultime, quasi sovrapponibili: il finale, secondo me abbastanza prevedibile, fornisce gli elementi per la mia interpretazione del film, che nonostante le apparenze, non è soltanto una bella fiaba su Masashi che vive due volte, quanto una riflessione – semiseria, per immagini – sul rapporto fra realtà e finzione, nella quale elementi tragici ed elementi affettuosamente sorridenti si alternano continuamente. Questo spiega il ripetersi di molte scene, uguali ma non troppo, che può appesantire talvolta il racconto e che certamente spiazza gli spettatori meno avvertiti.
Non un grande capolavoro, ma un film insolito con qualche meditazione filosofica ben dissimulata sotto il velo del racconto fiabesco.
È ancora in sala
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