Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
È stata la mano di dio, del dio del pallone, Maradona, a salvare la vita di quello che sarebbe diventato uno dei registi italiani più osannati e premiati: Paolo Sorrentino, che nella finzione diventa Fabio Schisa (Scotti). Già, perché in quel giorno del 1987 - quando i suoi genitori andarono in Abruzzo, dove morirono asfissiati dal monossido di carbonio emesso da una stufa - lui doveva assolutamente recarsi allo stadio per veder giocare l'idolo della sua città. Ed è proprio di questo che parla il film del regista partenopeo targato Netflix, un'opera tra sogno (l'arrivo del campione nel capoluogo campano) e realtà (rimase orfano a 16 anni). Peccato che a un film sulla carta così intimo e personale, diviso tra i toni da commedia della prima parte e quelli sepolcrali della seconda, manchi la mano di Sorrentino, non bastando quella di dio. Non c'è quasi traccia delle sue invenzioni spiazzanti, dell'uso straniante della musica, dei dialoghi sopraffini di opere monumentali come L'amico di famiglia, Il divo e La grande bellezza. È stata la mano di dio è un modesto romanzo di formazione (le prime turbe erotiche, la procace zia matta, i conflitti tra i genitori, la predilezione della madre per gli scherzi estremi, l'amico contrabbandiere) che certamente avrà avuto un valore catartico per il regista, ma che non riesce a coinvolgere, nonostante la parata di figurine grottesche disseminate qua e la (il munaciello delle credenze popolari, il mariettello impersonato da Lino Musella, la settantenne baronessa Focale che, prendendosi la verginità del protagonista, gli dà "una mano a guardare il futuro"), i tributi a Fellini (i provini del regista riminese sono la scena più gustosa del film) e ad Antonio Capuano e la ripresa di una Napoli notturna e tutt'altro che da cartolina.
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