Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
E’ stata la tetta della zia. Altroché. La genesi, l’ispirazione prima del grande artista a venire, basculante sulla soglia della gerontofilia. Anche queste so’ ispirazioni, anche questa è poesia.
Camma a fa’? Sicuramente non si possono negare, perlomeno, ‘na certa faccia tosta e un certo sprezzo del ridicol--, pardon, del pericolo; qualcuno forse direbbe addirittura un certo “coraggio”: anima pia. Coraggio, poesia, profondità, bellezza? Bah. Facile far leva sull’eterna magnetica bellezza d’una mammell-, ehm, città sopra la quale sin da subito vorace si getta lo sguardo del regista e col suo quello dello spettatore.
Un poco più arduo, invece – e la conferma arriva in pratica all’istante – il riuscire ad ingenerare un minimo di curiosità ed interesse per tramite d’una lunga nonché disgiunta sequela di momenti e “momentetti” pseudo-rivelatori, alla palese ricerca d’un dramma e d’un pathos invece soavemente addormentati.
Un po’ come ne La grande bellezza: ma almeno E’ stata la mano di Dio dura di meno. E lascia da parte gran parte degli ammiccamenti e delle moine dell’altro film: è già qualcosa. Tuttavia, pur in assenza delle fastidiose esagerazioni del passato, l’opera n° 9 di Sorrentino finisce per risultare comunque alquanto soporifera nella sua pervicace ricerca di una sorta di stravagante “poesia” che ormai è pura maniera (tra personaggi macchiettistici – come la signora che divora mozzarelle o la baronessa – ed episodi “folcloristici” – come quello in barca tra “estatiche visioni” e fughe rocambolesche dalle motovedette della finanza –).
Non si tratta, ovviamente, d’un film orripilante, ma piuttosto tediante sì, al netto di alcune palesi qualità: specialmente la recitazione (al di là del protagonista Scotti, abbastanza convincente anche se un po’ acerbo, sono da ricordare la già citata baronessa della Pedrazzi, l’Alfredo di Carpentieri [che se non arriva Maradona si uccide], la Maria della Saponangelo), la scenografia (fin dall’inizio, col lampadario rovesciato), la fotografia e la colonna sonora (anche se la tanto decantata sequenza finale sulle note e parole di Pino Daniele si dimostra soltanto l’ennesimo esempio di malriuscito tentativo di suscitare commozione).
Capitolo a parte meriterebbe poi quello che qualcuno forse arriverebbe a definire sempre “coraggio”, ovvero il presentarci ogni due per tre il ricordo di inarrivabili registi, grandi del passato (quelli per capirci in grado di rendere epica una manina che mescola il tè [cit.]), nel momento in cui nel film viceversa si riesce nella sensazionale impresa di lasciare quasi indifferenti di fronte ad un nudo integrale. E’ un peccato.
Un “peccato” che cinque secondi – e dico cinque secondi – di C’era una volta in America (masochisticamente evocato a ripetizione) oppure, perché no, di Amarcord siano capaci di trasmettere molte più emozioni di tutto questo pretenzioso polpettone.
Ciononostante, il nuovo film di Sorrentino è già stato ricoperto di elogi, tanto da far sorgere il dubbio il regista sia ormai entrato in quell’incantata ed eterea dimensione “di culto”, riservata solo a pochi eletti (come, per dire, Tarantino), entro la quale qualunque cosa si faccia si viene acclamati: il paradiso dei cine-onanisti.
“Inchinarsi a questo Sorrentino, please”, invoca non a caso un commentatore. E va beh, se proprio si deve… a patto che non si tratti però d’un inchino del genere di quello di zia Patrizia all’inizio, eh, perché in quel caso chissà… non si sa mai cosa potrebbe insinuarsi alle spalle mentre ci si trova piegati. Occhi aperti, mi raccomando.
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