Regia di Fred Zinnemann vedi scheda film
Il misterioso Prewitt è un soldato che arriva alla caserma di Schofield, nelle Hawaii, trasferitosi per motivi “personali”. Nonostante il Capitano della caserma, saputo della sua bravura, lo voglia far tornare sul ring, Prewitt non intende nuovamente tirare di boxe. E intanto il sergente Warden insidia la moglie del suo Capitano, insoddisfatta dalla vita sregolata di quest’ultimo…
Sul piano estatico è un magnifico compendio del cinema americano anni ’50, il ritratto formale di un’intera epoca cinematografica. La fotografia e le inquadrature curatissime, con un taglio dichiaratamente western (il regista è pur sempre quel Zinnemann di “Mezzogiorno di fuoco”) sottolineano come gli intenti siano di considerare l’ambientazione bellica come una specie di un’evoluzione naturale dell’epopea western. Qui si mischiano sentimenti, passioni, soprusi e atrocità che sono proprie dell’animo umano; ma qui non centra la guerra. Il film ha un’ambientazione militare, ma non è un film che racconta di guerra. Di tutti i morti, e ce ne sono nel film, non ce n’è uno che sia perito sul campo dopo una battaglia con il nemico: tutti muoiono per le assurde aberrazioni fisiologiche dell’animo umano, in una lotta fratricida senza senso.
“Da qui all’eternità” è un film puramente drammatico, che trae la sua linfa dai rapporti di contrasto, di sottrazioni, di sovrapposizioni, tra i numerosi protagonisti: Montgomery Clift il tenebroso, Frank Sinatra il pagliaccio triste, Burt Lancaster il prode, Ernst Borgnine il frustrato, Deborah Kerr l’infelice.
Tutti i protagonisti sono tracciati con grande precisione, con una profondità che ne evidenzia il profilo reale in contrapposizione alla propria maschera (obbligata ed impossibile da sfilarsi via). Ed il mix di questi contrasti interiori (ma non solo), veicolato attraverso ritmi sincopati e al contempo tuttavia troppo verbosi e superficiali, costruiscono un’atmosfera irreale ma anche originalissima. Tuttavia il film è molto lontano dal potersi definire un capolavoro, tanto che gli 8 Oscar (tra cui film, sceneggiatura e regia) sono uno degli esempi più vividi del fatto che statuette e valore assoluto di un film spesso non siano in rapporto di sinonimia. Sopravvalutato.
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