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Parigi, 13Arr.

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Parigi, 13Arr.

di yume
8 stelle

Tre donne e un uomo, le etnie ci sono tutte, i colori fondamentali, bianco, giallo e nero, pure, ma il colore è unico, quello di una gioventù vicina ormai alla piena maturità che non ha mai trovato la strada.

locandina

Parigi, 13Arr. (2021): locandina

Nel tredicesimo arrondissement di Parigi c’è un’ampia sezione che si chiama Les Olympiades, creata fra il 1969 e 1977 su progetto di Michel Holley, architetto coadiuvato da André Martinat.

Una “città nella città” che comprende sei torri abitative private col nome di famose Olimpiadi (Sapporo, Città del Messico, Atene, Helsinki, Cortina e Tokyo), due torri abitative ILN (Londra e Anversa), tre edifici HLM (Roma, Grenoble e Squaw Valley), nonché negozi (galleria Mercure e centro commerciale Oslo) e uffici (Olympie, Oslo).

Come in quasi tutte le metropoli sede di giochi olimpici, anche Parigi ebbe la sua cittadella. Sconsigliamo vivamente di andare a visitare quella di Roma 1961, simbolo del degrado a cui la caput mundi si è votata dalla fine dell’età imperiale, fermiamoci a Parigi che, come si sa, almeno da Hauptmann in poi, fa le cose perbene, almeno nell'urbanistica.

Lucie Zhang, Makita Samba, Jacques Audiard

Parigi, 13Arr. (2021): Lucie Zhang, Makita Samba, Jacques Audiard

Dunque, il glaciale bianco e nero di Audiard e del suo fotografo registra strade, palazzi, centri commerciali, appartamentini da single di indubbio candore, anonimi quanto basta per essere in linea con i tempi, ma niente delle miserabili  banlieux degli immigrati.

Strade pulite, centro universitario funzionante, locali per una giusta movida serale.

Come si vive? Si vive, a patto di non fermarsi troppo a pensare, ci sarebbe il suicidio in fondo al viale.

Se volete un’istantanea in tempo reale della condizione attuale delle generazioni fra i venti e i quaranta anni, questo è il film per voi.

Audiard in qualche intervista ha citato Manhattan di Woody Allen come modello ispiratore.

Probabile che, visto da ragazzo, quel film abbia lasciato il segno.

E cosa diceva Woody della sua scelta di filmare NY in bianco e nero?

“ Forse è una reminiscenza di vecchie fotografie, film, libri e tutto quel genere di cose. Ma è così che mi ricordo New York”.

Non può essere questa la motivazione di Audiard, l’unica cosa che sembra accomunare i due film è il bisogno che diceva Allen di

“… rendere al cinema la stessa città di New York la protagonista del film, come fosse uno dei personaggi della storia”.

Per il resto c’è l’abisso scavato dalla Storia che tutti conosciamo degli ultimi cinquanta anni,

Woody fece volteggiare la Grande Mela sulle note di Gershwin suonato dalla New York Philarmonic Orchestra diretta da Zubin Mehta e dalla Buffalo Philarmonic diretta da Michael Tilson Thomas.

Altri tempi.

Parigi in bianco e nero oggi è altra cosa.

Makita Samba

Parigi, 13Arr. (2021): Makita Samba

Audiard inserisce la musica di Rone, sedici tracce che si incollano a queste storie giovanili di vita quotidiana, di incontri, scontri, riavvicinamenti, amicizie e sesso, entrando fin dentro i personaggi, facendo propria la lezione dei maestri della Nouvelle Vague, nel modo di interpretare la sceneggiatura, anche a livello sonoro.

(Qui un’ ampia intervista al musicista, candidato alla prossima edizione dei Premi Cèsar nella categoria Migliore Colonna Sonora:

https://www.parkettchannel.it/rone-il-cinema-francese-ha-un-nuovo-sound)

 Una città che tanti registi hanno filmato in bicromia e fotografi famosi hanno resa immortale con scatti memorabili, nel film finisce di essere Parigi e la vediamo come una qualsiasi città dalle enormi periferie dove si vivono vite anonime, sradicate da qualsiasi inclusione sociale che non sia il breve incontro al bar, su banchi dell’Università, a casa per qualche scopata veloce senza senso e soprattutto senza amore.

Spesso si guarda fino all’orizzonte dall’alto dei palazzi, sfavillio di luci, la città che dorme, di notte, tetti, terrazze, grovigli di antenne, traffico, la città che respira, di giorno, ma dov’è la Tour Eiffel? Sparita, le cartoline sono finite al macero, una cupola solitaria in lotnananza che sarà? Gl’Invalides? Boh, nessuno se lo chiede, romanticherie d’anteguerra e dopoguerra, la guerra oggi è altra cosa, si deve marciare senza guardarsi indietro né intorno, sia che si insegni Lettere sia che si risponda in un call center pur avendo una laurea in Scienze Politiche, sia che si porti gente a vedere appartamenti da affittare o comprare, sia che, dulcis in fundo, si faccia sesso virtuale a pagamento nelle video chat che pullulano in giro.

Questo fanno i quattro protagonisti, tre donne e un uomo, le etnie ci sono tutte, i colori fondamentali, bianco, giallo e nero, pure, ma il colore è unico, quello di una gioventù vicina ormai alla piena maturità che non ha mai trovato la strada.

Lasciare le vecchie strade fa bene, tutti d’accordo, a patto che se ne imbocchino di nuove.

Questo sembra non riesca ad accadere, oggi, inutile lanciarsi in ardue e argute disquisizioni su come e perché. Lo stato delle cose è questo e i quattro desperados sono modelli insuperabili.

Non sanno di esserlo, Audiard riesce a far percepire il tracciato alle loro spalle con storie di famiglia, abusi sessuali, frustrazioni senza che appaia in superficie, tanto è stato metabolizzato dal loro train de vie.

Si accettano, o forse è troppo dire “si accettano”, piuttosto convivono con sé stessi alla meno peggio, senza drammi e senza gioia, in una parola, senza luce.

Sì, Audiard alla fine di questo imbuto, tunnel, sottopasso in cui infila i suoi personaggi una speranza ce la dà, e qualche piccolo colpo di scena, in finale, ci sta, ci vuole, è giusto, sappiamo che “domani è un altro giorno” … ma chi l’aveva detto?

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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