Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Ci sono casi e coincidenze e intersezioni che regolano e intrecciano le nostre vite. Nel 1958, un ragazzo si getta dall’ultimo piano di un grattacielo e, durante il volo, incrocia la fucilata che sua madre sta sparando a suo padre nell’appartamento due piani più sotto. È uno degli episodi che aprono, come una cornice ripresa da cinegiornali d’epoca, il labirinto in cui si articola la struttura narrativa di “Magnolia”: ventiquattr’ore, da parzialmente nuvoloso alle nuvole fitte alla pioggia alla schiarita, nella vita di una ventina di personaggi, a Los Angeles, oggi. Intorno a due patriarchi peccatori, arrivati al rendiconto di una malattia terminale, si dipana la narrazione più ambiziosa e dissennata degli ultimi anni: ambiziosa perché non si concentra, come “Boogie Nights”, su una rappresentazione lineare, ma mescola l’attimo, il qui e ora, di ognuno, tentando di estrarne il “cuore”, il nodo cruciale; dissennata perché non tiene conto delle regole, dei tempi e dei ritmi, delle abitudini e della coerenza, pur di rimandarci quest’immagine complessiva, disperatamente analitica, quotidiana eppure del tutto eccezionale, tremendamente intima eppure così condivisibile. “Magnolia” è un giorno nella vita di ciascuno di noi, con le sue debolezze e i suoi paradossi, le sue voragini dolorose, le sue cattiverie gratuite, le sue generosità involontarie, i suoi momenti, nel cuore della notte, di terrore rivelatore, di rimpianto per un’intera vita, per un’ingiustizia fatta o subita nel passato, per un sogno andato a male o per un’illusione che nasce. Cinema “psichico” quasi, un’immersione in un flusso ovattato, in un continuum che non dà tregua, dove uno zoom su un volto è più terribile di qualsiasi discorso, dove uno sguardo, un passaggio tra un ambiente reale e un’immagine trasmessa dal televisore, più incisivo di molti silenzi. Un film sterminato (dura più di tre ore), dove, almeno per le prime due ore, pare di stare in un unico piano sequenza: sopraffatti dalla musica di Aimée Mann, si è letteralmente trascinati in un gorgo ipnotico. Un film imperfetto, ma talmente generoso che ogni imperfezione, incongruenza, esitazione, insistenza, diventa un impagabile pregio, un tassello, un dolore, un dubbio, una speranza che vanno ad aggiungersi allo squallore disperato del mondo, del nostro mondo. Un mondo fatto di solitudini, di crudeltà, di lacrime che non si trattengono, di rane che piovono dal cielo, di gesti minimi che possono aiutarci a fare i conti con il passato, quello con il quale noi crediamo di aver chiuso, ma che spesso non ha chiuso con noi. Paul Thomas Anderson è il regista più coraggioso del decennio; la sua passione non ha prezzo.
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