Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
"Magnolia" di Paul Thomas Anderson si offre agli appassionati di cinema d'autore come una delle più grandi sorprese degli ultimi anni, come uno di quei film-evento che ormai scarseggiano sempre di più nelle sale, e che già solo per questo motivo meriterebbero la più viva attenzione. Il regista si era fatto notare in precedenza con "Sydney" ("Hard eight", 1997), un noir forse non del tutto risolto ma anomalo e interessante, e con "Boogie nights" (1998), affascinante rivisitazione della stagione d'oro del cinema porno negli anni Settanta, ma è proprio questa sua terza opera a conferirgli un posto di primissimo piano nell'ambito del cinema contemporaneo.
Anderson, infatti, insieme a Kusturica e a pochi altri, è uno di quei registi ancora capaci di pensare in grande, di rischiare su un soggetto impegnativo e di non facile presa sul pubblico, vista la durata chilometrica del film, ed è anche uno dei pochi che ancora si chieda dove collocare la macchina da presa e come dare un ritmo cinematografico alle immagini. "Magnolia" si presenta come un grande, ambizioso, sfaccettato affresco di un'America contemporanea in crisi, costruito su una struttura corale e polifonica che finora ci era stato dato di vedere a livelli così alti solo nei capolavori di Robert Altman "Nashville" (1975) e "America oggi" ("Short cuts, 1993). Naturalmente, di questi due film è soprattutto il secondo che può avere influenzato Anderson, sia a livello stilistico che tematico, e particolarmente nell'analisi spietata del rapporto genitori/figli, oltre che in certi espedienti narrativi comuni ("America oggi" si chiudeva su un terremoto simbolico che per qualche minuto accomunava le varie vicende, mentre in "Magnolia" questa funzione è assolta dalla già celebre pioggia delle rane). Tuttavia, considerare "Magnolia" come una semplice imitazione o appendice di "America oggi" sarebbe sbagliato e fuorviante, perché Anderson mostra chiaramente di avere una sua personale cifra stilistica e anche una sua poetica, che qui si concentra principalmente sui temi della mancanza d'amore e dell'impossibilità di fare i conti con un passato che invece torna continuamente a farsi vivo.
Molti critici hanno parlato, e certo non a sproposito, di un affresco quasi "biblico", dove le colpe e le mancanze dei padri si riversano sui figli, come una tara ereditaria, ma il film si presta anche ad altre letture, proprio perché Anderson, nel suo assillo di creare una comédie humaine di fine Millennio, ha voluto affrontare problematiche in cui tutti, in un modo o nell'altro, possiamo riconoscerci. Tra queste problematiche, le più dolorose sono probabilmente la morte (Earl Partridge e Jimmy Gator), l'abuso sessuale e la dipendenza dalla droga (Claudia), l'omosessualità (Donnie Smith), la mancanza di affetto (Frank Mackey e il piccolo Stanley) e il tradimento coniugale (ancora Jimmy Gator, Earl Partridge e Linda, sua ultima moglie). Tuttavia, anche se tende forse a psicanalizzarli un po' troppo, lo sguardo del regista sui suoi personaggi non è mai quello freddo e distaccato dell'entomologo, ma, anzi, è sempre guidato da una sincera adesione che qua e là, nelle sequenze più forti a livello emotivo, si tramuta in una vera e propria pietas. Nel racconto vi sono varie simbologie ( i nomi femminili come Lily, Rose, che rimandano all'idea di purezza floreale del titolo) e vi è un'attenta costruzione simmetrica delle varie storie, ognuna delle quali si lega strettamente ad almeno un'altra, ma ciò che colpisce di più è la perfetta concatenazione dei vari segmenti narrativi del film, che si incastrano in un puzzle che riesce a tenere lo spettatore col fiato sospeso per ben tre ore, senza un attimo di noia. Certo, qualcuno ha rimproverato al regista un eccessivo accumulo di disgrazie e tragedie sui suoi inguaiatissimi personaggi, e forse qualche taglio avrebbe giovato, ma non si può volergliene se si considera la generosità e il coraggio dell'opera, la sua densità e la sua ricchezza umana, e poi, in fondo, è sempre meglio peccare per eccesso che per difetto.
Nonostante la giovane età, Anderson dimostra ormai una completa padronanza della macchina-cinema , ricorrendo a diverse tecniche di ripresa nell'arco delle tre ore del film. Soprattutto nella prima parte, vi è un frequente ricorso a piani-sequenza, tra i quali ve ne sono da citare almeno un paio di incredibile lunghezza e virtuosismo realizzati negli studi della trasmissione televisiva "What do kids know?", dove il montaggio interno risultante dai movimenti combinati degli attori e della macchina da presa ottiene effetti strabilianti. Anche nella scena in cui Tom Cruise fa la sua arringa machista nel corso dell'altra trasmissione "Seduce and destroy" vi è un ricorso ad inquadrature lunghe, che permettono all'attore una recitazione più fluida. Tuttavia, vi sono anche numerose scene di scontri verbali tra coppie di personaggi in cui il regista utilizza un montaggio di pezzi più brevi, ricorrendo principalmente alla tecnica del campo-contocampo per esasperare ancor di più le atmosfere, al cui effetto concorre anche una recitazione dai toni spesso volutamente sopra le righe, come nel caso della scenata isterica di Julianne Moore dal farmacista.
La macchina da presa è assai mobile e compie sinuose carrellate in avanti a scoprire dettagli significativi, ad evidenziare stati d'animo e angosce nei magistrali primi piani degli attori; la musica (forse fin troppo presente) imperversa da un capo all'altro del film, soprattutto con le numerose canzoni scritte appositamente dalla cantautrice Aimee Mann, tra cui la più bella probabilmente è quella finale, "Save me", che chiude il film su un inno di speranza. Alla musica sono affidate varie funzioni, come ad esempio quella di raccordo tra un blocco narrativo e l'altro, e talvolta essa diviene addirittura oggetto della narrazione stessa, come nella commovente sequenza in cui tutti i personaggi si ritrovano idealmente uniti a cantare "It's not going to stop", nei cui versi si condensa molto del significato del film.
Resta da evidenziare l'apporto insostituibile degli interpreti, tutti perfetti nel dosaggio scrupoloso delle emozioni dei propri personaggi, nel percorrere una gamma di registri molto ampia e difficile, nell'esprimere con un'intensità difficilmente uguagliabile il groviglio di insoddisfazione, rabbia e dolore che è il nucleo centrale del film. Tutti meriterebbero una citazione per la loro incredibile bravura, ma vanno assolutamente ricordati almeno Tom Cruise, un fragile guru mediatico che ricorda Lenny Bruce, Philip Seymour Hoffman, il candido infermiere che è una delle poche anime buone del film, e William H. Macy, un ex-bambino prodigio che ha tanto amore da dare ma non sa a chi darlo. Se la direzione degli attori è eccezionale, qualche riserva la si può però esprimere sulla sceneggiatura (firmata dal regista stesso) che, in particolare, tende ad abusare un po' troppo di un turpiloquio che, pur essendo funzionale alle esigenze della vicenda, dà spesso l'impressione di essere piuttosto gratuito e fine a se stesso. Una maggiore pulizia dei dialoghi avrebbe giovato a certe situazioni del film, ma nel complesso Anderson dimostra di saperci fare molto bene anche come sceneggiatore, riuscendo a dare coerenza ed organicità ad una storia che, per la sua mancanza di un unico centro gravitazionale, avrebbe potuto risultare facilmente dispersiva.
Nel complesso, si può dire che "Magnolia" sia una di quelle opere la cui portata non si esaurisce solo nell'ambito strettamente cinematografico, perché offre una serie di agganci all'analisi psico-sociologica del mondo in cui viviamo, e infatti è un film che riguarda anche noi, e non soltanto gli americani. Molti dei contenuti del film hanno valore universale, e la rappresentazione fortemente critica del modo in cui i mass media influenzano le vite della gente comune è più che mai attuale. Inoltre, il gusto dello spettacolo cinematografico che presiede in ogni momento alla rappresentazione filmica fa sì che "Magnolia" non diventi mai un film che vuole dimostrare qualcosa didascalicamente, ma che sia semplicemente un veicolo di emozione, uno spunto per riflettere su se stessi e sulle dinamiche di gruppo che ci uniscono agli altri in un flusso dominato dalla casualità e da circostanze apparentemente inspiegabili, e un invito a superare le crisi e le incomprensioni attraverso l'amore.
voto 9
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