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Nosferatu, il principe della notte

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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La recensione su Nosferatu, il principe della notte

di LorCio
8 stelle

Rispetto al romanzo di Bram Stoker, la versione di Herzog, rifacendosi al capolavoro avanguardista di Murnau, pone al centro della scena un altro principe della notte. Almeno diverso dall’iconografia alla quale siamo abituati, quella di un elegante vampiro di aspetto distinto ma non troppo rassicurante (Christopher Lee, tanto per fare un nome). Il Nosferatu di Herzog è una figura tragicamente malinconica, segnata in un aspetto che ne mette in risalto gli irregolari denti incisivi, il pallore di un volto sofferto, l’andatura lenta del suo muoversi. Anche la storia, ovviamente, si rifà sostanzialmente al capolavoro di Stoker, dove fondamentali elementi erano rappresentati dal diario di Jonathan e dall’ambientazione vittoriana della vicenda. Herzog la coniuga, seguendo il prototipo, secondo il suo stile, trasferendo la scena nella Svezia appestata, declinando l’atmosfera gotica con derivazioni naturalistiche (mettendo a frutto l’esperienza passata – ma anche contemporanea e futura – da documentarista) – specie nel road movie di Jonathan verso il castello del conte Dracula – e suggestioni elegantemente, nervosamente selvagge.

 

Plumbeo ed esangue, caratterizzato da un linguaggio raffinato, impreziosito da elucubrazioni di chiara ermeneutica (sulla fede, sulla potenza di essa contro il male, sul dualismo giorno/notte e di conseguenza vita/morte…), è un film sul vecchio concetto ovidiano del “né con te né senza di te” che avvolge il personaggio di Nosferatu con mesta angoscia – con relativo inganno di cui rimane vittima (inconsapevole? improvvisa? inaspettata?). E poi: è un film che fa paura. Ma di quella paura subdola e languida, che attanaglia con la prontezza dell’effetto, non fine a sé stessa. In simbiosi con Herzog, Klaus Kinski offre una prova di ammirevole sobrietà, di dolorosa inquietudine, di disperata perversione. Isabelle Adjani incarna perfettamente il senso del sacrificio, anche perché evoca inevitabilmente il fantasma di Adele H., altra (anti)eroina di sacrificata passione. E Bruno Ganz si misura con pertinenza in un ruolo di crepuscolare alienazione, corredando la sua discesa nelle tenebre con un rabbrividente finale.

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