Originale, anarchico, ma non invettivo, Kufid è il nuovo lavoro del regista italo-marocchino Elia Moutamid. Inizialmente nato con intento diverso per sondare il rapporto tra uomo e umanistica, ma bloccato sul nascere dal Covid, il documentario si ambienta tra le mura domestiche della casa del regista a Brescia e il Marocco,
"Sono cresciuto col culto della posa, della gettata, del prefabbricato"
Moutamid
Originale, anarchico ma non invettivo, Kufid è il nuovo lavoro del regista italo-marocchino Elia Moutamid. Inizialmente nato con intento diverso, per sondare il rapporto tra uomo e urbanistica e bloccato sul nascere dal Covid, il documentario si ambienta tra le mura domestiche della casa del regista a Brescia e il Marocco, terra d'origine del padre in cui rimane bloccato a causa della pandemia.
Il film, che è stato presentato in anteprima alla 38° edizione del Torino Film Festival in concorso nella sezione italiana TFFdoc dedicata ai documentari, ha raggiunto il cuore di tutti coloro che hanno fronteggiato il dolore di avere una persona malata, un parente, la paura di restare isolati, le difficoltà ad uscire e aiutare gli altri o se stessi e tutta la burocrazia che la pandemia ha portato con sè, anche solo per fare la spesa.
Si perchè Kufid è un piccolo - grande film che parte però dalle cose quotidiane, apparentemente insignificanti, ma che in quel momento sono diventate centrali nella vita di tutti: la televisione, gli appelli, i giornali, i titoli, la spesa, le vie isolate, la solitudine quotidiana, il numero dei morti, il giretto in giardino o col cane, tutti piccoli tentativi di sopravvivenza, filmati dal regista con sensibilità, creatività, simpatia, ironia e attenzione al prossimo.
Qui il vuoto del quotidiano assume non solo valenza di un monito e ricordo di quanto vissuto, ma anche una potenza assoluta, come fosse un macigno indelebile nelle nostre teste, contribuendo a spostare una volte per tutte le valenze e le priorità nella vita di ciascuno.
Superando riflessioni sulla gentifricazione, l'urbanistica modificata, l'assetto nuovo di città di cemento e il rapporto tra ricchi e poveri nella speculazione architettonica e nel recupero di aree culturali, Elia racconta anche lo scollamento di vivere in due realtà cosi diverse, Brescia e Fes.
Lo scenario suburbano, nel caso della prima, aggredita da monoliti di cemento, col culto della posa, della gettata, del prefabbricato, mentre nella seconda la ricostruzione col nuovo denaro e l'interesse dell'occidente ha sradicato usanze, costumi costringendo la popolazione locale, li da generazioni, a vendere per una pipa di tabacco e a spostarsi altrove.
Si racconta anche a livello autobiografico, ma estendibile a tutti i trapiantati, la difficoltà, i preconcetti di essere un musulmano in Italia, paese a volte inospitale e razzista, a volte ignorante e retrogrado.
Nel farlo però Moutamid usa poesia, ironia, delicatezza e arriva proprio con intelligenza a far riflettere lo spettatore su tutti i limiti che lo contraddistinguono, cemento e paura del diverso compresi.
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