Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Il manifesto del creazionismo cinematografico. Kubrick racconta la genesi della conoscenza, la cui origine, come quella della vita, è da sempre avvolta nel mistero. La tensione tra il nulla (il profondo nero dello spazio interstellare) e il tutto (il bianco abbagliante delle installazioni aerospaziali) genera la scintilla dell’essere, che scocca improvvisa, senza un perché. Il principio è una particella circondata dal vuoto, che si espande come nell’esplosione del big bang: e questa storia, in effetti, è dominata dalle figure circolari (le astronavi, i pianeti, l’occhio di HAL), e dai moti rotatori, che evidenziano la presenza di un centro, intorno a cui tutto il resto orbita. Molte delle inquadrature riflettono questa simmetria, che definisce il movimento come un dinamismo globale con un unico punto fisso: questo è il cuore delle galassie, o il monolite da cui parte la fiammella del sapere, e, in generale, la traiettoria dell’evoluzione, che è come una fuga lungo le linee radiali di un campo elettromagnetico. Questo è il percorso seguito a ritroso dallo psichedelico viaggio del comandante Bowman, nell’ultima parte del film, che si presenta come un’interminabile corsa lungo direzioni che sembrano convergere all’infinito, su un orizzonte irraggiungibile, senza mai arrivare a toccarsi, senza mai poter condurre al remoto inizio del tempo. La conoscenza è, d’altronde, un’entità esterna all’uomo, che la riceve in dono, ma non la può veramente possedere, né tantomeno dominare: essa si materializza in forme e sostanze di natura aliena, e quindi incontrollabile, come il monolite, o il computer HAL. Questi oggetti sono le incarnazioni vive (in uno sfuggente senso inorganico) di quell’anima intelligente, ma invisibile, che riempie ogni angolo del cosmo, ed è il pensiero/respiro che, nel silenzio, si sente pulsare in sottofondo. I suoi effetti sono, per noi umani, le incomprensibili sorprese dell’esistenza, le scoperte che scaturiscono dal nulla, le svolte inattese del nostro destino, la malattia e la morte che ci colgono impreparati, il concepimento che assume i tratti di un miracolo divino. L’improvviso invecchiamento del protagonista che, alla fine della storia, vede il proprio declino dall’esterno, in una dimensione sconosciuta, indica che anche lo scorrere del tempo è qualcosa che accade fuori dalle nostre logiche e dai nostri criteri razionali, essendo governato esclusivamente da forze superiori, per noi inafferrabili. L’apparente accidentalità – rappresentata dalla rottura del bicchiere, nella scena della camera da letto – è l’unico motore del cambiamento, di cui noi siamo in grado di cogliere solo il lato casuale: il monolite è una cosa che piove dal cielo, recando un contenuto che per noi, purtroppo, rimane chiuso in quella scatola, in quel perfetto involucro rettangolare, la cui forma solida ed ermetica ricorda quella dei blocchi dell’unità centrale di HAL. Il linguaggio metaforico utilizzato da Kubrick è, dunque, di carattere geometrico, ed è messo al servizio di quella rigorosa essenzialità espressiva che realizza una precisione folgorante, ma del tutto esente da calligrafismi. Tutto è improntato ad una parsimonia narrativa che risparmia i mezzi descrittivi per lasciare spazio alla riflessione, come nei lunghi intervalli privi di dialoghi, o nell’intermezzo di buio che Kubrick inserisce nella pellicola. In questi momenti il racconto verbale viene sospeso ed il messaggio si converte in pura suggestione intellettuale, affidandosi ad una muta spettacolarità astratta, che invita lo spettatore ad indugiare nella contemplazione. I nostri sensi vengono “ibernati” – come gli astronauti della missione su Giove – in attesa di ritornare alla realtà, riposati e rinvigoriti, con le facoltà percettive acuite e rinnovate. 2001: Odissea nello spazio è, in effetti, un itinerario esplorativo che ci conduce fuori dal rumoroso caos degli eventi, verso una dimensione in cui la superficie lucida del nulla fa da specchio alla nostra introspezione.
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