Regia di Ramin Bahrani vedi scheda film
Film che vive del contrasto tra il sotteso richiamo ai valori della salmodiante cultura teologica della miserrima società d'origine e l'inverecondo materialismo della promessa opulenza di quella d'approdo.
Immigrato pakistano vedovo e con un figlio a carico, il giovane Ahmad spinge ogni giorno il suo carretto per servire la prima colazione ai trafelati impiegati di Midtown Manhattan. La sua gravosa condizione viene alleviata da un connazionale che gli promette aiuto economico e da una graziosa edicolante spagnola che gli promette il suo cuore.
Tutto però sembra precipitare a causa di una banale distrazione sul posto di lavoro.
Ladri di carrettini
Indipendente e sorprendente opera prima del regista americano, figlio di immigrati pakistani, Ramin Bahrani, qui già alle prese con il core business della sua brillante carriera cinematografica all'insegna dell'impegno civile e dell'analisi sociale fatta di sradicamento culturale, disgregazione familiare e precarietà economica; sempre essenziale, sempre antiretorico, sempre dalla parte degli ultimi. Le modulazioni di un realismo sociale dalla spiccata sensibilità umana che ha fatto invocare una revanche degli stranieri in terra straniera in salsa neorealista (si dice Kiarostami ma le scene finali richiamano quello di un famoso film italiano del periodo postbellico), ma che sembra più accostabile al rigore etico dei fratelli Dardenne (Rosetta) nel suo iseguire pervicacemente il suo protagonista, mediorientale barbuto dallo stoicismo cristologico, nella sua affannata via crucis per le vie della indifferente metropoli americana dove il denaro è una spada di Damocle che pende inesorabile sulle relazioni sentimentali, la solidarietà etnica e l'amicizia disinteressata. Film che vive del contrasto tra il sotteso richiamo ai valori della salmodiante cultura teologica della miserrima società d'origine e l'inverecondo materialismo della promessa opulenza di quella d'approdo. Se quello che traspare sottotraccia è l'evidente messaggio politico e la critica ad un sistema produttivo in cui la felicità è il miraggio di un riscatto fatto di compromessi e la schiavitù una realtà di sussistenza chiusa tra le pareti di uno stand da portare in giro ogni santo giorno, è proprio l'attenzione che Barhani riserva ai suoi personaggi l'aspetto più qualificante di un cinema che non si ferma alle enunciazioni di principio, ma che sa calarle nella reltà psicologica di un vissuto fatto di abbandoni sentimentali (la ragazza), traumi familiari (il venditore di bagel) e di isolamento culturale (l'amico in carriera); tessendo le fila di un menage a trois con richiami alla nouvelle vague in cui c'è chi respinge, c'è chi abbandona e chi inevitabilmente finisce per tradire. Toccanti le già citate scene finali, legate ad una solidarietà tra ultimi che aveva già fatto capolino in quelle iniziali ed alla poesia di un affetto paterno che fa da amaro contrasto al mondo insensato che gli scorre dietro. Presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia 2005, ha vinto il ha vinto Premio Fipresci al London Film Festival dello stesso anno e una manciata di altri riconoscimenti in giro per il mondo.
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