Regia di Giuseppe De Santis vedi scheda film
76 feriti e una morta (Anna Maria Baraldi, nel film però modificano il nome in Cornelia Riva); non è il bollettino di uno scontro armato, né quello di un attentato, ma di una tragedia lavorativa accaduta a Roma nel 1951, perché in Italia si muore e si moriva per lavoro, un diritto considerato così fondamentale dai padri costituenti, da essere messo al primo posto nella Costituzione Repubblicana all’articolo 1.
Ma i principi se non attualizzati restano lettera morta su carta, in quanto di lavoro e per cercare lavoro, ancora oggi si lotta e si muore.
Specie le donne, che in un paese maschilista come il nostro, in ambito professionale sono state poco considerate e pagate meno degli uomini.
Giuseppe De Santis, mosse i primi passi nel cinema con Caccia Tragica (1947), raggiungendo un successo mondiale, con Riso Amaro (1948), pellicola neorealista, che fondeva il gusto per la spettacolarizzazione, con topoi del cinema di genere americano (thriller e noir in primis), incontrando per questo il favore del pubblico, fino ad allora abbastanza restio verso le pellicole del neorealismo.
Il regista, prendendo spunto su un fatto di cronaca riguardante il crollo di una scala in un palazzo a Roma, su cui stazionavano almeno 200 ragazze in attesa di compiere la prova d’esame presso un ragioniere, che cercava una ragazza per un posto da dattilografa, compie dei passi indietro sul fronte della componente prettamente “narrativa”, per riabbracciare lo stile “neorealista” più puro ed autentico.
Roma ore 11 (1952), costruisce la vicenda con un approccio cronachistico-documentaristico, avvalendosi di dichiarazioni dei testimoni, documenti dell’inchiesta, articoli di giornale - Elio Petri, futuro cineasta, si occupò in prima persona in quanto giornalista dell’accaduto, svolgendo lavoro di consulenza sul set ed aiuto regista – e di tre ragazze, coinvolte nella tragedia.
Lo spunto su cui imbastire il film, serve a De Santis, per parlare della condizione di estrema miseria, in cui versava l’Italia del dopoguerra, lasciando che siano i volti di queste giovani e meno giovani donne a parlare direttamente.
La maggior parte dei loro occhi, sono rivolti verso l’alto speranzosi, mentre altre volte, disegnano sui loro visi uno sguardo torvo, in quanto obbligate a lottare l’una contro l’altra, in una malsana concorrenza spietata, per agguantare l’agognato posto di dattilografa, che aiuterebbe molte di loro ad uscire da una vita miserevole aiutando le proprie famiglie o comunque garantire un legittimo e maggior benessere personale.
La mescolanza di comparse, attrici non professioniste e professioniste (Delia Scala, Lucia Bosè, Lea Padovani, Elena Varzi e Carla Del Poggio), si mescolano in un riuscitissimo amalgama corale, nelle cui singole voci di sofferenza, amore, speranza, abusi subiti sul luogo di lavoro ed emancipazione femminile, emerge più di tutti un minimo comune denominatore; la condizione di estrema miseria, che ha contagiato un intero paese a cui non sfugge nessuna classe sociale, al di là delle apparenze esteriori.
Questa tensione latente, ripresa nei continui sali e scendi lungo le scalinate della palazzina a via Savona 31 tramite un uso tipicamente americano dei dolly - De Santis, comunque non rinuncia alle invenzioni tecniche d’oltreoceano in tale film, purché servano a dare maggior forza espressiva -, esplode in tutta la sua forza, quando una ragazza passa davanti a tutte le altre alla notizia, che il ragioniere avrebbe “provinato” per l’esame di dattilografa, solo 30 di loro.
La lotta tra le ragazze per passare avanti degenera sempre più, finché non si rompono le cinghie di ferro, facendo crollare tutto, trascinandole tutte con sé al pian terreno.
Una serie di fatalità, ha portato a tale tragedia, a cui si aggiunge la beffa delle 2300 lire di retta giornaliera chiesta dall’ospedale, per continuare a curare le ragazze ferite nel crollo; dacché molte di loro devono lasciare il luogo di cura, in quanto impossibilitate a pagare il ricovero.
La componente cronachistico-documentaristica, prevale su quella prettamente d’invenzione narrativa, meno ispirata ma utile corollario nel completare una condizione femminile incerta e senza un futuro stabile per l’avvenire. Una tragedia tanto grossa, richiede un colpevole immediato da parte dell’opinione pubblica, i giornalisti pressano come sciacalli l’ispettore di polizia intento a far chiarezza nell’inchiesta, innanzi alla quale, tutti fanno consueto scaricabarile.
Il proprietario del palazzo rivendica l’eccezionalità dell’evento, l’architetto che ha costruito le scale, sostiene la mancanza di manutenzione ed il peso eccessivo rispetto alla portata massima consentita, la portinaia si giustifica in base al fatto di non aver aperto lei il cancello ed il ragioniere afferma di essere rimasto incredulo, innanzi al gran numero di ragazze presentatasi. Ma qualcuno a cui dare la colpa si deve trovare. Chi può essere il mostro della situazione? Semplice! Una poveraccia situata in basso nella scala sociale. Così convocata in questura Luciana (Carla Del Poggio), - la ragazza che è passata innanzi a tutte -, a cui si tenta di addossare la colpa del disastro, nel tentativo di assolversi tutti.
Eppure Luciana in questo quadro di meschinità, risulta l’unica a sentirsi veramente colpevole, dal punto di vista etico-morale, nonostante il marito Nando (Massimo Girotti), la conforti dicendo che lei non ha colpa.
Nel viso affranto di Carla Del Poggio, c’è tutta la consapevolezza di una tragedia da sopportare come se fosse in un purgatorio eterno, essendo condannata a sentire nella propria mente il ticchettio eterno dei tasti della macchina da scrivere; oggetto di un'ossessione lavorativa, divenuta da meta, simbolo di una colpa che mai avrà fine.
Esiste per forza un colpevole? Forse è la disoccupazione estrema del paese, la vera tragedia dietro tale catastrofe? Il cinema neorealista non si focalizza mai su un unico male, ma su uno sguardo d’insieme, depurato da ogni costruzione artificiosa e sovrastruttura a-posteriori, che non sia la potenza dell’immagine derivata da una realtà da mostrare e portare alla luce, quindi senza dover “di-mostrare”, quest'ultima, una caratteristica fondamentale del cinema narrativo di finzione.
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