Regia di John Michael McDonagh vedi scheda film
“Così stiamo al sicuro.”
Assistere a “the Forgiven” (“il Perdonato”), che poco m’ispirava, nonostante il regista e sceneggiatore (il quale a sua volta, principiando la propria opera dai titoli coda, sembra voler affermare di aver già terminato sott’ogni aspetto, sin dall’inizio, con questo film) fosse il John Michael McDonagh di “the Guard”, “Calvary” e “War on EveryOne” (e fino ad oggi il migliore nonché l’anagraficamente maggiore dei fratelli cineasti, anche se il minore, Martin, drammaturgo, con “Three BillBoards OutSide Ebbing, Missouri”, dopo “In Bruges” e “Seven Psychopaths”, l’aveva già quasi agguantato, e il prossimo imminente “the Banshees of Inisherin” proseguirà lanciato su quella strada) e il soggetto originale consistesse nel libro omonimo pubblicato nel 2012 dall’adelphiano - aggettivo sovranazionale, cosmopolita - Lawrence Osborne saggista e romanziere di the Naked Tourist, Bangkok Days, Hunters in the Dark, Beautiful Animals e the Glass Kingdom, ha lavato via dagli occhi un bel po’ di quel cisposo bias (“pre”)cognitivo che ammorba chiunque di Voi: è senz’altro il film meno importante, ad oggi, della filmografia dell’autore, ma è un buon film polanskiano (Frantic, Bitter Moon, the Ghost Writer) nel quale, pur se ti aspetti ad ogni momento uno scatto verso o l’Haneke o il Tarantino, poc’o nulla di tutto questo accade (tra Malcolm Lowry e John Huston) e quasi niente succede (fra Graham Greene e Paul Bowles), nei berberi dintorni di questo compound (“le mura in rovina dello ksar di Azna”) à la "the Limits of Control", ma tanto altro avviene.
Videro l’Africa solo alle undici e mezzo. Si diradò la foschia; i motoscafi dei milionari europei saltarono fuori dal nulla fra bandiere di Sotogrande e sfavillii di bicchieri da cocktail. Rianimati dall’idea di casa, i migranti del ponte superiore si caricarono i borsoni in spalla e l’espressione angosciata sui loro visi cominciò a dissolversi. Ma forse era soltanto l’effetto del sole. Accesero i motori delle auto di seconda mano parcheggiate nella stiva mentre i loro figli correvano in giro con delle arance in mano. Dalla costa africana sembrò sprigionarsi un’energia, che polarizzò il traghetto in arrivo da Algeciras. Gli europei si irrigidirono.
La coppia di inglesi che prendeva il sole sulle sdraio rimase sorpresa nel vedere le alture sulla terraferma. In cima alle montagne c’erano antenne bianche che parevano fari fatti di cavi d’acciaio, e le montagne stesse erano di quel verde soffice che metteva voglia di tendere la mano e toccarle. Qui, dove l’Atlantico si getta nel Mediterraneo, un tempo si innalzavano le colonne d’Ercole. Ci sono posti destinati a essere come varchi. Si ha l’impressione di essere risucchiati al di là di una grande porta. L’uomo, un medico di mezza età, si riparò gli occhi con la mano irta di peli rossicci.
Distinsero a occhio nudo i tratti curvilinei di strade che probabilmente esistevano fin dall’epoca romana. David Henniger pensò che forse guidare sarebbe stato più facile del previsto; che forse – tutto sommato – sarebbe stato un piacere. Da un altoparlante vicino all’asta della bandiera arrivò qualche battuta di raï, di hip hop parigino. Lui guardò la moglie – leggeva un giornale spagnolo sfogliando le pagine avanti e indietro, indifferentemente –, poi controllò l’ora. Dalla città, sempre più vicina, la gente salutava sbracciandosi, agitando la mano o un fazzoletto. Jo si tolse un momento gli occhiali da sole per vedere dov’era. David ammirò il puro smarrimento dipinto da un lato all’altro del suo viso. L’Afrique.
(Lawrence Osborne, “the Forgiven”, 2012 – Traduzione di MariaGrazia Gini, Adelphi, 2021.)
Affiancato/circondato da una squadra affiatata e consolidata – con Larry Smith (EWS, Fear X, Bronson, Only God Forgives, Tau, Things Heard & Seen, più gli stessi “the Guard” e “Calvary”, oltre che capo elettricista sul set di “Barry Lyndon” e coordinatore dei tecnici delle luci, aka gaffer, su quello di “the Shining”) che orchestra una “consueta/canonica” tavolozza, per l’appunto, eyeswideshutiana, mentre Chirs Gill (sodale sin dagli esordi del regista e, per un dato periodo, di Danny Boyle), con l’aiuto della produttrice, e qui dedita anche al taglia & cuci, Elizabeth Eves (anch’ella collaboratrice da sempre dell’autore, nonché moglie), intesse un montaggio che duetta con peculiare classicità in sintonia con le musiche del meta-mainstream zimmeriano Lorne Balfe (che proprio con “War On EveryOne” si diede al cinema “serio”, proseguendo poi alternando composizioni addizionali per prodotti rilevanti quali “Dunkirk” e “Ad Astra” a colonne sonore originali per roba come “the Tomorrow War” e “Black Widow”) – e , “al contrario”, da un cast eterogeneo che, a parte Caleb Landry Jones (filmografia notevole, che non ho ancora presentato al “completo” sulle pagine di FTV, perciò lo faccio adesso e qui: Breaking Bad, Byzantium, AntiViral, God’s Pocket, the Florida Project, Queen and Country, Heaven Knows What, Low Down, StoneWall, War on EveryOne, Get Out, the Florida Project, “Twin Peaks - the Return”, American Made, “Three BillBoards OutSide Ebbing, Missouri”, Tyrel, Friday’s Child / Age Out, Welcome the Stranger, the Kidness of Strangers, the Dead Don’t Die, Viena and the Fantomes, the OutPost, Nitram, Finch) e Marie-Josée Croze (Maelström, Ararat, Nothing, the Barbarian Invasions, Munich, Calvary), non era, mai, stato diretto da lui (però in un paio di casi dal fratello sì), ma che ovviamente, dati i nomi coinvolti – Ralph Fiennes (Royal National Theatre, Schindler’s List, Strange Days, the End of the Affair, Spider, In Bruges, the Hurt Locker, the Reader, Coriolanus, Grand Budapest Hotel, A Bigger Splash, “Hail, Caesar!”, the Dig, the Menu), Jessica Chastain (Take Shelter, Coriolanus, the Tree of Life, Texas Killing Field, Zero Dark Thirty, Interstellar, A Most Violent Year, the Martian, Crimson Peak, Molly’s Game, Scenes from a Marriage, Armageddon Time) e Matt Smith [l’Undicesimo Dottore, nel senso di Who (“Chi?” - “Sì, Who!”), e poi “Womb”, “Charlie Says”, “His House” e “Last Night in Soho”, oltre che nella schiatta Targaryen di “House of the Dragon”] e poi Ismael Kanater (bravissimo), Saïd Taghmaoui (La Haine, Hideous Kinky, Three Kings, the Good Thief), Christopher Abbott (“Martha Marcy May Marlene”, “A Most Violent Year”, “Girls”, “James White”, “It Comes at Night”, “First Man”, “Vox Lux”, “Tyrel”, “Catch-22”, “Possessor”, “Black Bear”, “the World to Come”), Mourad Zaoui, Alex Jennings, Abbey Lee ("Old"), etc… –, fornisce delle prestazioni eccezionali, John Michael McDonagh riesce nell’impresa di trasporre lo stato d’animo del romanzo di partenza, portandone a compimento una traduzione fedele in senso positivo che, se non porta molto di nuovo al suo curriculum, consegna alla filmografia mondiale un tassello per la sezione “Questo è Cinema”.
In viaggio per Chefchaouen non parlarono. L’auto dell’Avis di Tangeri era una vecchia Camry coi freni molli e la pelle rossa strappata. David infilò i guanti traforati e la guidò nervosamente, evitando con prudenza le donne con il cappello di paglia che infestavano il ciglio e spronavano i muli coi bastoni. Il sole picchiava forte; la strada era lunga, bordata da pietre e aranci, e al di sopra spuntavano le baraccopoli sui fianchi delle alture, i caseggiati dozzinali, le antenne che decorano tutti i quartieri delle classi medie. Impossibile vederne l’inizio e la fine. Del mare c’era solo il sapore.
Tutto era polvere. David andò avanti, caparbio, deciso a uscire al più presto dall’abitato. La luce insistente gli aveva stancato gli occhi; la strada si era ridotta a un bagliore geometrico animato da movimenti ostili: animali, bambini, autocarri, Mercedes scassate di trent’anni prima.
La periferia di Tangeri cadeva a pezzi ma i giardini sopravvivevano. Anche i limoni e gli ulivi mutilati, la disillusione ostinata e le fabbriche vuote, l’odore dei ragazzi che covavano la rabbia.
(Op. Cit.)
Un ortocerato a pochi eurodollari. Un dalek trafugato a un morto. “Così stiamo al sicuro.”
* * * ¾
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