Regia di Giuseppe Bonito vedi scheda film
Per ragioni economiche poco chiare, una ragazzina abruzzese di tredici anni (Fiore) viene affidata a una coppia sterile. Quando la madre adottiva (Lietti) rimane incinta di un altro uomo, restituisce la ragazzina senza nome (l'arminuta è "quella che ritorna") alla famiglia d'origine, tanto retrograda e numerosa, quanto indigente e anaffettiva. Pur recalcitrante rispetto alla possibilità di questo ritorno alle origini, con conseguente declassamento sociale, la ragazzina riuscirà a ritrovare un proprio equilibrio grazie soprattutto al rapporto con una sorella più piccola (De Leonardis).
Tratto dal romanzo di Donatella di Pietrantonio (premio Campiello 2017), il film è il ritratto di quell'Italia arretrata e scarsamente civilizzata della prima metà degli anni Settanta, dove il contrasto tra città in pieno sviluppo economico e campagna ancora in uno stadio di profonda precarietà è la cifra principale. Dopo Pulce non c'è e Figli, il cinema di Giuseppe Bonito continua a collocarsi ad altezza di bambino (o quasi), mostrandone i timori rispetto a un mondo di adulti affettivamente semianalfabeta, capace di esprimersi solo attraverso l'espressione perennemente saturnina della madre (Scalera), la cinghia del padre (Ferracane) o la morbosità incestuosa del fratello diciottenne. Ne scaturisce un racconto di formazione capace di suscitare una grande empatia nei confronti della giovane protagonista dai capelli rossi e della sua sorellina, ma a tratti piuttosto ellittico e con concessioni eccessive alla recitazione tutta in sottrazione di Vanessa Scalera, della quale si perde il 50% delle parole, pronunciate quasi sempre la forma sussurrata.
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