Regia di Kelly Makin vedi scheda film
Senza essere un film né originale né memorabile, la bravura di Grant e Caan rende la visione sufficientemente piacevole
Ci sono film che pur non spiccando in brillantezza di scrittura, pur procedendo in modo del tutto prevedibile e con situazioni non poi così originali, hanno comunque una messa in scena e una recitazione tale da garantire un intrattenimento accettabile: Mickey occhi blu rientra pienamente in questa categoria. Non è per nulla un film memorabile, anzi per certi versi si inserisce in un filone (quello di usare i luoghi comuni della mafia americana a scopo di commedia) abbastanza trafficato, considerando anche che giusto l'anno prima era uscito Terapia e pallottole, in cui peraltro appariva anche il solito Joe Vitarelli, presente anche qui nell'usuale ruolo di scagnozzo della famiglia mafiosa: eppure è un film che riesce ad avere un suo senso, perché per certi versi la stessa sceneggiatura poco originale riesce a crearsi dei margini per diverse scene gustose e perché la bravura dei protagonisti tiene in pieni la baracca.
Era questo il periodo d'oro di Hugh Grant e questo film è stato prodotto proprio per sfruttare facilmente il suo appeal verso il pubblico, affiancandogli un James Caan ovviamente veterano dei film di mafia, non fosse altro per essere entrato nella storia del cinema per il suo Sonny Corleone ne Il Padrino, che nel corso del film viene peraltro citato tra i film che Grant vuole ricordarsi di affittare per imparare la parlata delle famiglie italo-americane.
Pur restando in un continuo senso di déjà-vu, perché la storia procede su strade facilmente immaginabili, già l'incipit fa venire il sorriso, che resta per tutta la durata del film. Si inizia con la bella scena al ristorante cinese e la disastrosa proposta di matrimonio di Hugh Grant a Jeanne Tripplehorn (la ex dottoressa Beth Garner in Basic Instinct), ma chiaramente il film è fatto dal gioco a due tra Grant e Caan, con gli interessi della famiglia mafiosa a invadere la vita del tranquillo banditore d'aste. E il merito della sceneggiatura è proprio quello di lasciare comunque quella positiva sensazione nello spettatore: non tutto scorre perfettamente liscio, ma alcune trovate sono azzeccatissime, su tutte quella dei terribili quadri di Johnny Graziosi (figlio di uno dei boss più temuti), tra cui un incredibile e inarrivabile Gesù col mitra, che vengono battuti all'asta a 50mila e 115mila dollari.
Molto divertenti anche i tentativi di Grant (specialmente in lingua originale) di imparare a parlare con l'inflessione e la tonalità degli italo-americani, per la disperazione di Caan.
Insomma, non parliamo certo di un capolavoro, ma di un film che si lascia guardare con discreto piacere per il mestiere degli attori.
Il finale è un po' caotico, ma tutto sommato adeguato al contesto.
Piccolo ruolo tra i frequentatori della galleria d'arte per Mark Margolis, un decennio prima di diventare un personaggio di culto in tv per la sua interpretazione di Hector "Tio" Salamanca in Breaking Bad (e successivamente in Better Call Saul).
Voto: 6
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