Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Considerato unanimemente dalla critica come un thriller della psiche, “Ansikte mot ansikte”, un capolavoro passato quasi sotto silenzio, prelude invece paradossalmente, almeno negli intendimenti dell’autore, al fallimento della psicanalisi, ovvero all’impossibilità dell’uomo di penetrare all’interno del proprio microcosmo mentale.
In una fase della filmografia bergmaniana che possiamo ormai considerare alquanto avanzata, ma in cui non si fatica di certo ad individuare uno scenario narrativo in crescente (e tutt’altro che sterile) evoluzione, il vuoto totale continua in maniera crescente ad opprimere i singoli soggetti che oramai non si curano neanche più d’interrogarsi sulle problematiche individuali incentrate sui personali rapporti con il divino, considerando definitivamente archiviata (senza esito alcuno) la pressante dicotomia fra il mondo empirico e quello trascendente. Si fa invece largo timidamente, sebbene destinata anch’essa ad un inevitabile fallimento, una volontà d’incontro e di confronto tra gli esseri umani desiderosi di intessere tra loro una costruttiva e fruttuosa dialettica, ovvero un’aspirazione a riappropriarsi in toto della propria personalità, buttando alle ortiche una volta per tutte qualsiasi tipo di maschera in un progressivo annullamento dell’incolmabile baratro tra apparire ed essere e compenetrandosi alfine in un amore in grado di abbracciare ogni entità organica ed inorganica, morte compresa.
Ma rompere una volta per tutte il muro dell’incomunicabilità appare un’impresa più che ardua per l’angariata massa di eroi ed eroine bergmaniane, anime semplici e complesse ad un tempo, dedite a penosi road movie mentali che si aggirano per i meandri di un mondo spietatamente solipsistico appellandosi l’un l’altra con parole colme di sgomento, senza tuttavia pervenire ad alcun tipo di translitterazione reciproca. E di conseguenza il tentativo di ribaltamento della propria immagine finisce col preludere ad un sovvertimento del reale, con i sogni che vanno ad assumere un’evidenza sempre concreta ed il quotidiano che persiste in quel suo continuo trasformarsi in ingannevole apparenza.
In effetti nelle intenzioni dell’autore “L’immagine allo specchio”, opera che nell’edizione televisiva è divisa in quattro parti per una durata complessiva di duecento minuti, avrebbe dovuto determinare un inedito scambio di ruoli tra i sogni e la realtà, con i primi a prendere il posto della seconda e quest’ultima destinata a diventare sempre più fuggevole. “Il proposito richiedeva un’ispirazione che venne a mancare.” Scrive l’autore. “Le sequenze del sogno divennero sintetiche, la realtà sfilacciata. Qui e là ci sono scene solide e Liv Ullman ha combattuto come un leone. La sua forza e il suo talento tengono insieme il film. Ma nemmeno lei è riuscita salvare il punto culminante, il grido primigenio, che era frutto di una lettura consumata in modo entusiastico ma disordinato.”
Per sua stessa ammissione, Bergman non manca di evidenziare una certa avversione nei confronti di questa nuova creatura cinematografica, dovuta ad una sua presunta maniera di affrontare in modo superficiale una quantità di complicazioni intime senza riuscire a coglierle e metterle interamente a nudo. Ma alla prova dei fatti tale straniante viaggio a ritroso nei labirinti dell’inconscio che si propone di penetrare a fondo i segreti nascosti dietro le pareti della realtà, non manca di dispensarci momenti di forte suggestione, derivando la propria forza primaria dallo straripante potere evocativo e visionario delle immagini che finiscono con l’assumere di volta in volta connotazioni inevitabilmente oniriche.
L’autore compie una vera e propria radiografia con l’ausilio di una impietosa macchina da presa sul viso stravolto di Liv Ulmann, la sua fedele musa costretta a reggere la scena per l’intera totalità della pellicola, forte della carica espressiva che pervade l’intera sua persona, scandagliata esaustivamente attimo per attimo nel travagliato viaggio a ritroso nella fanciullezza di Jenny, personaggio a suo (dis)agio in un mondo totalmente privato delle fragole, costretto a rivivere traumi ed angosce destinati a rinfocolare sensi di colpa ed a ridestare orrori dell’inconscio celati momentaneamente in un armadio buio ma sempre pronti a riemergere nel coma della mente straziata dal peso della propria cristallizzata impotenza.
E da quella sua assoluta incapacità di aprirsi nel corso di svariate peregrinazioni oniriche ad uno spasmodico tentativo di abbraccio che appare come una fugace rimembranza di quello ben più macabro ed allucinato di “Sussurri e grida” traspare l’intero dramma di un’umanità inabilitata a provvedere a sé stessa ed a guardarsi FACCIA A FACCIA, irrimediabilmente chiusa a doppia mandata nel proprio immalinconito universo d’individualità. E cosa resterà alla fine dell’immagine riflessa nello specchio? Soltanto la lancinante evidenza del grido primigenio che si libera all’interno delle viscere dell’essere ferito mortalmente dalla sua stessa febbre deviante di vita.
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