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...e il diavolo ha riso

Regia di Tony Richardson vedi scheda film

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La recensione su ...e il diavolo ha riso

di (spopola) 1726792
4 stelle

E’ singolare che, mentre per riuscire a vedere il migliore Richardson in circuito normale abbiamo dovuto attendere più di quattro anni e i successi commerciali di “Tom Jones” e de “Il caro estinto”, l’ultima opera, inconcludente e nel complesso fallita, di questo autore così imprevedibile, che affronta gli argomenti più disparati, è arrivata puntuale al termine della stagione estiva, a soli sei mesi di distanza dalla sua presentazione ufficiale al Festival di Cannes.
Che Richardson non fosse un “maestro del cinema” era cosa risaputa: in nessun caso un “creatore”, perché la matrice letteraria dei suoi film è sempre stata abbastanza evidente. Qualche volta comunque, è riuscito a superare i testi presi come base di partenza, cosa questa abbastanza rara nel cinema, e allora ci siamo trovati di fronte alle sue opere migliori (“The loneliness of the long distance runner” – “A taste of Honey”).
Tutta la sua produzione comunque ha limiti ben precisi e, direi, costanti. In fondo ci troviamo di fronte a un buon mestierante (questo temine non va inteso nell’accezione dispregiativa in cui viene usato abitualmente) che ha saputo fare film degni di interesse che hanno notevolmente contribuito a smuovere le acque stagnanti del cinema inglese, portando avanti un discorso civile e, a suo modo, impegnato.
“Mademoiselle” è stato senz’altro un infortunio.
Il regista si è trovato davanti un materiale non del tutto congeniale al suo mondo, che comunque lo affascinava, e ha voluti tentare lo stesso, peccando di presunzione.
Colpa di Genet? E’ indubbio che ci troviamo di fronte a una personalità molto spiccata, senz’altro più forte di quella del regista, e che può aver preso la mano a quest’ultimo, come da più parti è stato detto, ma non credo obbiettivamente che il problema stia tutto qui. Il fatto è che Genet non è uomo di cinema e le sue proteste viscerali vanno molto meglio rappresentate sulla scena che non sulla pellicola, come hanno già dimostrato altre sporadiche esperienze (vedi “Il balcone”).
Onestamente comunque in tutto questo calderone di passioni represse ho trovato ben poco anche di Genet, pur nella rappresentazione bestiale del sesso e negli scoperti simbolismi di tutta la storia. O, per dirla meglio, quel poco che rimane di Genet è diluito, privo di quella problematica esistente in altre sue opere, e contaminato da altre esperienze a lui estranee.
Specialmente nella rappresentazione della notte d’amore dei due amanti, si avverte semmai una certa affinità con le pagine più scopertamente commerciali della pur impegnata demistificazione di certo puritanesimo borghese e di certi tabù cari al popolo inglese del Lawrence di “L’amante di Lady Chatterley”. Anche qui, come nel romanzo succitato, colui che scatena il "dramma che sfocia in tragedia" è un uomo primitivo, con istinti quasi bestiali e che vive a contatto con la natura. Quello che è nettamente diverso fra le due opere è la situazione di fondo, e di conseguenza, i risultati a cui approdano.
Nel film c’è anche mischiato un tentativo di protesta antirazzista: il boscaiolo è un italiano. Tale fatto però in ultima analisi non risulta altro che un pretesto per rendere più plausibile questa folle passione, secondo la più vieta tradizione che vuole gli italiani grandi amanti, suscitatori di amori travolgenti, con tutti i luoghi comuni relativi.
Che cosa ci voleva dimostrare Genet (e di riflesso Richardson)? La forza distruttrice del sesso? Dirò che il discorso è piuttosto confuso e viene portato avanti in maniera non molto logica.
Inoltre tutta la storia si sviluppa in una cornice improbabile e di comodo, senza un effettivo rimando alla realtà di quella gente, e nello stesso tempo troppo umana per assumere quell’alone di irrealtà che caratterizza altre opere dell’autore, senza riuscire quindi ad assumere quella funzione catalizzatrice sui personaggi necessaria perché la vicenda trovi il suo equilibrio.
I risvegli uterini di questa zitella infarcita di rispettabilità che trovano sfoghi così mostruosi, non hanno quindi in pratica alcuna motivazione psicologica e trovano la loro spiegazione nel caso clinico, con tutti i pericoli inerenti.
Il film richiama alla mente un altro recente prodotto cinematografico: “Il diario di una cameriera” di Bunuel, e non perché in tutti e due i casi la protagonista è Jeanne Moreau, sempre brava e convincente, ma per l’atmosfera che circonda i due film. Solo che Richardson non è Bunuel.
Per il resto, squallore completo, né Ettore Manni, o peggio Umberto Orsini, riescono a dare un minimo di veridicità ai personaggi loro affidati. E il personaggio del figlio, che probabilmente nel quadro iniziale doveva rappresentare un termine di paragone per il torbido svilupparsi della passione insana di Mademoiselle, finisce per risultare a sua volta incompiuto ed enigmatico, irrilevante nella progressione dei fatti, se non come vittima assurda di una situazione insostenibile.
Cosa rimane dopo? Una discreta tecnica fotografica usata sapientemente e una sequela di belle immagini, il più delle volte fini a se stesse.
(critica espressa a caldo: anno 1966 - dopo il passaggio in sala del film e pubblicata nella sezione "lettere" della rivista Cinema Nuovo diretta da Guido Aristarco).
Valerio Vannini
A proposito di commenti... esterrefati e stupiti: si può davvero impunemente tradurre in un titolo così terribilmente assurdo (... e il diavolo ha riso) l'orginale, più pregnante e significativo "Mademoiselle?. Eccp una ulteriore ignominia che grida vendetta: le opere (anche quelle meno riuscite come questa) meritano per lo meno il rispetto della logica!!!!!!!!!

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