Regia di Tom McCarthy vedi scheda film
Non è mai troppo tardi per recuperare il tempo perduto, per porre un – almeno parziale – rimedio agli errori commessi, anche quando di origine remota. Questa indicazione acquista connotati incombenti quando di mezzo c’è un rapporto tra i più stretti in natura, come quello instaurato tra padre e figlia, diventando un’assoluta priorità, di tale intensità da annegare qualsiasi calcolo di comodo o ragionamento compiuto.
In La ragazza di Stillwater sopraggiungono inoltre un’ampia varietà di fattori che arricchiscono lo svolgimento e con esso l’evoluzione del protagonista, ovvero il padre, obbligandolo a scelte trancianti, a compiere azioni che albergano al di fuori dal perimetro della ragionevolezza, a sperperare un’insperata nuova stabilità per poi ritrovarsi a fare nuovi conti con in mano più cocci di prima, a fronteggiare ulteriori demoni interiori.
Da anni, Bill (Matt Damon – Sopravvissuto – The martian, Will Hunting – Genio ribelle), un uomo tartassato dalle sue azioni passate, parte regolarmente dall’Oklahoma per dirigersi a Marsiglia, al fine di vedere sua figlia Allison (Abigail Breslin – Benvenuti a Zombieland), reclusa in carcere per aver ucciso una sua coetanea, nonostante continui strenuamente a proclamarsi innocente.
In occasione di una sua nuova permanenza in terra di Francia, la situazione si complica quando viene in possesso del nome del potenziale colpevole. Con l’aiuto di Virginie (Camille Cottin – Il mistero Henri Pick), una marsigliese con cui imbastisce un legame tra amicizia e amore, cercherà di scagionare Allison.
Per farlo, ricorrerà a mezzi poco ortodossi, andando oltre i limiti imposti dalla Legge e giocandosi quel poco che nel frattempo era riuscito faticosamente a conquistarsi, ossia l’affetto di Virginie e della sua bambina, con cui aveva creato una splendida complicità.
La ragazza di Stillwater amalgama molteplici ingredienti nel segno dell’eclettismo, mescola la sensibilità di regista e sceneggiatori dando vita a contrasti tra culture e linguaggi, tra la forma mentis europea e quella americana. Così, partendo da un caso giudiziario e da un rapporto interrotto tra padre e figlia, Tom McCarthy stana, viviseziona e concima l’intimità (L’ospite inatteso), sparpaglia osservazioni di critica su abitudini e germi che stanno minando la convivenza sociale, la fiducia nel sistema (Il caso Spotlight). Contestualmente, il fattivo contributo alla sceneggiatura di Thomas Bidegain (Un sapore di ruggine e ossa, Il profeta) consente di entrare nella realtà marsigliese, di saperne cogliere e coniugare con profitto le sue diversificate componenti.
Queste impostazioni dettano le linee guida di un film in cui non tutto fila liscio, ma dalla sintesi soddisfacente, che sa difendersi anche quando accusa dei pericolosi contraccolpi. Parte con circospezione, per poi allargare gradualmente il compasso, passando agevolmente dal bastone alla carota, puntando la lente d’ingrandimento su un uomo comune - un Matt Damon stropicciato e imprigionato che, accettando nuove sfide extra Bourne, continua a progredire come attore - sbalzato in un groviglio tremendamente più grande di lui, che non può gestire usufruendo della giusta distanza, che non può comprendere fino in fondo.
Parimenti, Marsiglia è altrettanto protagonista (la ricordiamo in tanto cinema, da Il braccio violento della legge 2 a French connection, per poi scandire la filmografia di Robert Guédiguian), in virtù di insistite panoramiche, di un ritratto che dondola tra inferno e paradiso, affondando nelle contraddizioni di una città brulicante e cosmopolita.
A margine, galleggia il casus belli su innocenza/colpevolezza, ma sono fondamentalmente i suoi postumi, i detriti che sparge, a minare il paesaggio umano, a segnarne il punctum. Un orizzonte senza sbocchi riconcilianti, raggiunto navigando tra sensi di colpa e una felicità destinata al naufragio, con vittorie che finiscono per stampare il sapore di una sconfitta, cambiamenti che accentuano i rimpianti, dove chi fa da sé non fa per tre bensì finisce per ritrovarsi soffocato, con l’acqua alla gola più di prima.
Alla fine, tra i tanti stati d’animo che contraddistinguono La ragazza di Stillwater, stravincono quelli derivanti da L’ospite inatteso, quelli che vengono esposti senza appoggiarsi a eccessive esplicitazioni, suscitando riflessioni da elaborare assecondando la singola sensibilità. Tra sviluppi puntuali e ricostruzioni a lungo raggio, scorci suggestivi e comportamenti suscettibili, tratteggio umano e geografico, con un elevato indice di trasmittanza che attenua una relativa mancanza di dinamismo, e un taccuino stipato di annotazioni, che consente di non far gravare eccessivamente la presenza di scene superflue e altre dilungate a dismisura (di sicuro, il minutaggio eccede), nonché una chiusura che toglie qualche velo di troppo (meglio naufragare in un dubbio asfissiante che in una realtà troppo definita).
Costruttivo e coinvolgente.
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