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Dalle spensierate estati trascorse in famiglia in perfetto stile "hillbilly" nelle amene valli sugli Appalachi, all'esperienza come marine, fino a ritrovarsi come un promettente laureando in giurisprudenza destinato ad essere messo al vaglio dai più importanti studi legali del paese.
Ma la famiglia ha la sua importanza, e l'instancabile J.D. Vance, che ha saputo trarre insegnamento dalle difficoltà incontrate vivendo in un ambito familiare disagiato e al limite dell'insopportabilità, non ha nessuna intenzione né di dimenticare il passato, e le angherie ed i soprusi ricevuti, né tantomeno di vendicarsi lasciando in balia di se stessa una madre allo sbando tra dipendenza da eroina e una latente incapacità di risalire la china, nonostante l'intelligenza che Madre Natura le ha fornito.
L'epopea del ragazzo, raccontata a suon di flash-back che, nel loro zigzagare temporale, ci mettono in condizione di farci una più coerente idea della traumatica esperienza di vita del ragazzo, alle prese con una madre instabile e completamente inaffidabile, ed una nonna tenace quanto vittima pure lei di una vita agra tutta problemi da affrontare, è tratta da una storia vera che il buon Ron Howard si premura di svelarci nel solito finale con fotogrammi reali atti a documentare il grado di bravura ed aderenza degli attori prescelti, alla circostanza e alle persone che si è scelto di rappresentare.
Come se questa aderenza mimetica fosse necessaria a rimarcare la straordinaria performance di cui risultano beneficiari molti degli interpreti coinvolti, in un cast in cui spiccano soprattutto, e non solo per notorietà, oltre al protagonista adulto ben reso dal volenteroso Gabriel Basso (ed in due ruoli secondari, ma fondamentali, le piacevoli Haley Bennett e Freida Pinto, nonché un quasi irriconoscibile, canuto Bo Hopkins, portavoce decenni orsono di tanta fiction televisiva e cinematografica quasi sempre di serie B), una motivata, sorprendente Amy Adams, nei panni della madre Beverly devastata dalla dipendenza e dalle nevrosi, ma ancor più la straordinaria Glenn Close, che impersona la dinamica, traballante ed incallita fumatrice nonna Mamaw, matriarca tenace che nasconde sotto la coriacea esteriorità, un cuore di vittima che la umanizza sino a intenerirci: per la eccezionale interprete già plurinominata agli Oscar nell'arco della sua quarantennale carriera, questo personaggio dovrebbe finalmente consentirle di accaparrarsi la meritatissima statuetta per la migliore interpretazione, anche solo come non protagonista, nonostante in questo ruolo la Close finisca per rubare la scena a chiunque ogni qualvolta essa appaia in una inquadratura.
Il film, epopea familiare incentrata ancora una volta sulla ineluttabilità del sogno americano, tratta da una nota autobiografia diventata romanzo di successo, avrebbe fatto faville con alla regia un esperto di disagi familiari come James L. Brooks (il regista a suo tempo apprezzato, ma ora un po' dimenticato, di Voglia di tenerezza, Dentro la notizia, Qualcosa è cambiato); Howard ci mette tutto il mestiere e l'esperienza di regista poliedrico guadagnati in questi anni convulsi di lavori disparati, ma quasi sempre di qualità medio-buona, per un prodotto medio penalizzato da troppi momenti eccessivamente enfatici, in cui il tormento per arrivare all'agognato traguardo professionale, e dunque cardine di una vita regolare e tendenzialmente felice, diviene un refrain troppo telecomandato, e qua e là piuttosto fastidioso ed ostentato.
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