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L'urlo dell'odio

Regia di Lee Tamahori vedi scheda film

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La recensione su L'urlo dell'odio

di scapigliato
8 stelle

Lee Tamahori ha fatto un buon lavoro. Nonostante la critica sia unanime nello stroncare il film, e nonostante non sia un vero e proprio beast-horror, è ugualmente una pellicola che usa il genere degli animali-assassini per proiettare fuori dall’uomo e contro l’uomo la sua stessa ferocia. La vicenda è di quelle che s’inseriscono di diritto negli oppositive-movie, quei film tutti incentrati sul duello fisico, verbale ed etico tra due personaggi. Grandi titoli, da “Caccia Selvaggia” Bronson vs. Marvin, a “Duello nel Pacifico” Marvin vs. Mifune, a “L’Imperatore del Nord” Marvin vs. Borgnine, compresi “I Duellanti” Keitel vs. Carradine e innumerevoli western, fino al recente “The Haunting” Lee Jones vs Del Toro, hanno raccontato la primitiva lotta tra due uomini (il passato celebrava anche l’opposizione tra due donne come “Eva contro Eva” Davis vs. Baxter) come riassunto di tutte le opposizioni umane. In questo specifico caso, quello di Hopkins vs Baldwin, i due protagonisti restano “intrappolati” nel bel mezzo di una selvaggia foresta nordica. A dividerli e a metterli uno contro l’altro c’è, ovviamente, la donna, l’eterno femminile che tutto genera e tutto insidia. Così verrebbe da leggere. Ma ad insidiare davvero i due protagonisti è invece un grosso grizzly minaccioso che non da loro tregua.
Non è un vero e proprio beast-movie perchè l’attacco dell’orso è solo un elemento narrativo che definisce l’azione e il racconto, invece che esserne il centro, lo stimolo e il motivo ultimo finale. Nonostante questo, il film segue la moda della sua epoca in cui i beast-movie non sono più puri, benì spuri. Pochi sono gli animal-attack movies che si fondono sulla semplice e storica concezione del genere, sempre di più invece s’inventano altre sottotrame, che a volte hanno pure più visibilità di quella di genere, con cui creare un prodotto trasversale per un più ampio commercio. Ma questo, in Tamahori, non è un impedimento, anzi, il film sa sfiorare il genere anche in altre situazioni, elevando la minaccia animale da puro elemento accessorio come darebbe ad intendere il plot a catalizzatore dell’intero conflitto narrativo. Prima che si scateni la furia della natura, il simbolismo dell’orso aleggia già sulle vite dei nostri personaggi, ed è una scelta narrativa efficace per introdurci spiritualmente all’interno dell’avventura ferina. L’orso, portato al di fuori della figurazione umana, e diventando così una figurazione selvaggia, animalesca, istintiva e predatoria quale è, si trasforma nel paradigma in cui l’odio tra i due protagonisti si fa concrezione di un pensiero. Lottando contro l’orso, lottano contro questo loro odio inutile e insensato, come è insensato credere che un orso possa odiare, o amare. E in questo Tamahori dimostra di saper dosare l’elemento urside senza abusarne (non è dopotutto un beast-horror!) e di dirigere un film con consapevolezza d’intenti. Che poi il film possa avere dei punti deboli ed un finale accomodante (c’è David Mamet alla sceneggiatura!), sono purtroppo i dazi della cinematografia hollywoodiana di cassetta. Sicuro è invece lo spettacolo dedicato agli attacchi dell’orso, che ruba davvero la scena ad Anthony “the Cannibal” Hopkins.

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