Regia di Sam Levinson vedi scheda film
Annegato nell’esibizionismo, Malcolm & Marie procede a tentoni. Non interessa se non produce una verità qualsiasi, ma l’espressione sincera di ciò che vuole rappresentare dovrebbe essere un punto fermo che invece non si individua..
Chissà se nei titoli di testa vedremo fra qualche tempo apporre la dicitura” Primo film completato durante l’epidemia di covid 19” perché chiunque abbia preso in esame Malcolm & Marie ha ritenuto che questo fosse un dato imprescindibile per la sua analisi. Credo invece che più della segnalazione di merito quella frase sia un invito alla non belligeranza critica, tanto più che di critica ne parla molto anche il film. È notte fonda, una coppia del bel mondo rincasa dopo aver assistito all’anteprima di successo di un film realizzato da Malcolm, insieme alla sua compagna Marie, attricetta ex tossica che a quell’ora si metterà a spadellare un piatto di mac and cheese ancora armata di abito da sera e tacco di vertiginosa ordinanza.. La donna coglie come pretesto il mancato ringraziamento di lui durante il commiato pubblico post visione del film per innescare un carnage spietato sul loro rapporto di coppia senza esclusione di colpi. Riecheggiano già in sottofondo echi bergmaniani o ispirazioni derivate da Polanski e Casssevetes? Chissà.. ma la patente d’autore che il regista Sam Levinson vuole conseguire è evidente, anche se l’esame sembra comprendere solo la parte teorica. In un così triste momento storico dove la convivenza forzata tra persone stimola ulteriormente la crisi dei rapporti umani, in Malcolm & Marie più che l’implosione di coppia emerge lo scollamento del singolo che non ritrovandosi nello sguardo dell’altro non sa più riconoscersi senza quel riferimento. Autoanalisi lucida, bianco e nero ad alto contrasto, primissimi piani ed estenuanti long take si sprecano per fare entrare gli spettatori dentro quello spazio prigione, un confessionale extra lusso patinato nel quale però non si sentono odori, nemmeno quello della citata pasta con formaggio, non si percepisce mai una vera consonanza emotiva tra i due, e non per il poco impegno degli attori, John David Washington e Zendaya. La caratterizzazione delle due personalità verrà messa a fuoco a sufficienza ma a causa del testo farraginoso che non prende nessuna direzione definitiva obbliga invece a riempire lo schermo con repentini cambiamenti di stati d’animo che non danno mai il tempo a chi segue la vicenda di calarsi credibilmente nei loro panni, e la performance attoriale si trasforma in una esibizione interpretativa fine a sé stessa. Non a caso i momenti più godibili sono quelli di silenzio o quelli accompagnati da pause musicali che attutiscono un poco quel forte senso di artificiosità che scaturisce dalle immagini. Il regista Levinson manipola la materia psichica e sentimentale insieme ad una visione critica sul mondo della settima arte, sulle sue regole e sulle sue convenzioni, investe Malcolm come voce critica e non appiattita sugli schematismi che imbrigliano la pura creatività. L’intento resta lodevole ma sempre all’interno di un dialogo forzatamente incompiuto anche nell'irrazionalità, nel quale convergono atteggiamenti, rancori e rivalse che non arrivano mai a colpire davvero il bersaglio, cioè l’altro, cioè quello che l’uno sente profondamente inconciliabile e diverso da sé. Allora ogni obiettivo è destinato a cadere nel vuoto senza che si sviluppi un pensiero terzo, che elabori quanto viene esposto. Occorre riconoscere a questo tipo di lavoro una sua spinta poco frequentata nel cinema odierno,( magari non propriamente originale) ma che ha uno sviluppo eccessivamente slegato e ondivago che porta alla dissolvenza del soggetto stesso, destando alla fine non poche perplessità.
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