Regia di Laurent Cantet vedi scheda film
L’azienda è da sempre luogo di conflitti sociali fra chi la dirige e chi, pur “subendola”, in essa riconosce il proprio mezzo di sostentamento. ovvero chi deve tutto all’azienda in quanto questa consente di farlo sentire un ingranaggio, per quanto piccolo, utile. Utile (una parola di un valore immenso, per ogni uomo).
Ergo spesso e volentieri neanche la riconoscenza più cieca e servile si dimostra sufficiente a soddisfare la più tipica ragione sociale del fare impresa (ovvero, realizzare utili).
Laurent Cantet (nella doppia veste di regista e sceneggiatore) prova, allora, a sollevare una discussione sulla dura condizione del lavoro operaio (dalla notte dei tempi alla mercè dei capricci, finanche cinici, di chi detiene il potere decisionale) a partire dalla rappresentazione del confronto-scontro fra le due sue anime più tradizionali, cui, però, si aggiunge la “mina vagante” costituita dallo stagista Franck (Jalil Lespert), cui è demandato di compiere una difficile scelta di campo; fra la legittima aspirazione di ascesa della scala sociale e la preoccupazione di preservare il posto di alcuni colleghi (ovvero di salvare la propria dignità ed il proprio valore di uomo giusto, non ancora asservito alle logiche del profitto a tutti i costi).
Una mina vagante perché ancora scevro di un’identitaria coscienza di classe. Perché ancora ispirato dalla purezza delle formule accademiche. Perché ancora ignaro del reale significato della “disillusione”. Una mina vagante come molti. Come noi.
Benché lo spunto gli venga dato dall’approvazione, in Francia, qualche lustro fa, di una legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali, l’opera di Cantet è un esperimento filmico di strettissima attualità, animato dalle migliori intenzioni. Epperò è, per l’appunto, un esperimento; un’opera apprezzabile, ma non riuscita del tutto. A volte maldestra (eccessi poco credibili e artifizi narrativi non mancano); altre volte, però, riesce a trovare le parole giuste per smuovere le acque intorbidate dall’assuefazione e dalla rassegnazione.
Come quando viene espressa una semplice coppia, tranchant, di domande.
«E tu. Qual è il tuo posto? Dove andrai?».
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