Regia di Sam Mendes vedi scheda film
L’”American Beauty” è una rosa, una rosa rossa e snella coltivata con pignola passione da una moglie frustrata. La “American Beauty” è anche un’adolescente bionda, intravista dal protagonista tra le majorettes del college e subito idealizzata come una nuova Marilyn, ricoperta, nei sogni e nei desideri, di petali purpurei. Ma la “bellezza americana” è anche, sardonicamente, una vita suburbana agiata ma nevrotica, spenta, incolore, nonostante lo schermo rimandi i bagliori squillanti di un iperrealismo lynchiano. Sam Mendes (esordiente nel cinema, ma una gloria della scena, dopo gli allestimenti di “Cabaret” e “The Blue Room”) deve molto alla crudeltà di David Lynch, allo squallore che brulica sotto le vite americane. Prati, staccionate, belle case, notti nelle quali solitudini incattivite cozzano le une contro le altre: in tre davanti a un vecchio film di Reagan trasmesso in televisione; in tre a una tavola imbandita per la cena; i silenzi rotti dal rancore. Soli a fare fitness in cantina, soli a spogliarsi davanti a una finestra aperta, soli a spiare. Il più solo è il protagonista, quarantenne in crisi sedotto da un miraggio biondo che lo catapulta nella sua giovinezza, ormai patetica, fatta di “canne”, velocità e Pink Floyd. Uno che sa che di lì a pochi giorni sarà morto (come annuncia la sua voce off all’inizio, in un omaggio a “Viale del tramonto” di Wilder), come se la sua morte fisica fosse solo la consacrazione di un ormai accertato decesso psicologico. «Mia moglie e mia figlia pensano che io sia un enorme perdente. E hanno ragione»: Kevin Spacey percorre il film sconfortato e sornione, ormai niente più di un’ombra che cammina. Il più sano, invece, è il ragazzo che riprende tutto con la videocamera e si innamora della ragazzina scontrosa e scontenta: «Noi saremo sempre dei diversi, noi non saremo mai come l’altra gente». Forse la bellezza americana è anche questa; e la capacità, oggi, di fare un film classico, che affronta la morte barocca con il sogghigno del noir.
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